SOTTO LA MOLE

Torino ha perso la vocazione
(e non sa a che santo votarsi)

In un confronto promosso dall'associazione Avvalorando le spine di una città che aveva un grande futuro alle sue spalle. Turismo, cultura o manifattura: qual è il motore di domani? Servono meno reti familiari e più associazionismo, che a sorpresa spicca in Barriera

Si parla del futuro ma il presente incombe. Torino è forse la città italiana che più soffre la perdita d’identità, al punto che la storia ultracentenaria che l’ha vista prima essere centro propulsore dell’unità nazionale, poi capitale politica e in ultimo motore dell’industria italiana pesa come una condanna. E da qui l’interrogativo su come l’uscita dal secolo ferrigno possa ancora assicurare un destino e una nuova collocazione nella geografia politica ed economica. Una città che ha sempre fatto una cosa alla volta, in maniera quasi ossessiva, scontando proprio per questo un’atavica refrattarietà alla diversificazione e, in ultimo, al pluralismo. Perciò la ricetta di Gianna Pentenero, assessore al Lavoro di Torino, è questa di una città poliedrica in grado di barcamenarsi tra turismo, università e manifattura: «Dobbiamo fare lo sforzo di tenere insieme tutti i pezzi». Una prospettiva che non convince don Luca Peyron, del servizio diocesano per l’apostolato digitale, erede di una famiglia della buona borghesia subalpina che tra l’altro ha dato pure un sindaco: «Non si può tenere tutto insieme, bisogna fare delle scelte. Se diventiamo città del turismo i costi delle stanze salgono e gli studenti vanno a Bologna». Cala il gelo, poi Pentenero ribadisce il suo concetto ma riconosce: «È vero, delle scelte vanno fatte». Ma quali?

Il futuro scalda gli animi del dibattito promosso dall’associazione Avvalorando. Un discorso sviluppato a partire dalla ricerca Kkienn, di cui lo Spiffero ha già parlato, che presenta una città declinante, dove «ci si frequenta ancora coi compagni del liceo» mentre a Milano non è così, lamenta il ceo dell’istituto Massimo Di Braccio. In questo il ricercatore vede un «indicatore del fatto che ci si appoggia al network da cui si proviene: famiglia e vicinato». Una rete di relazioni amicali e familistiche non può che produrre un potere incestuoso. I nomi che contano occupano poco più di una rubrica del telefono che poco alla volta si sfoltisce per ragioni naturali e non certo per il turnover o dal sopraggiungere dirompente di un ricambio generazionale. Servono relazioni al di fuori del nido di provenienza per sviluppare la crescita (economica e culturale), spiega, dando una lettura molto critica di una città che vede ingessata, lontana dalle eccellenze italiane, che trova a Milano per le motivazioni che dà agli individui, e a Bologna per la qualità del capitale umano. Pentenero ascolta le critiche e si sforza di non nascondersi, partendo dall’eredità della one company town. Da ridimensionare, fa capire alla platea raccontando dell’incontro avuto col ceo di Stellantis Carlos Tavares: «Avevamo appena finito di raccontargli che Torino era stata la capitale dell’auto e lui ci rispose “Siamo in uno dei 157 paesi in cui operiamo”».

Un messaggio semplice: non siamo “unici”, né tantomeno speciali. Manca l’intraprendenza, insiste Barbara Graffino, presidente dei giovani imprenditori di Torino. Lo spiega con un aneddoto: «Quando giro per le università a volte chiedo: quanti di voi vogliono fare l’imprenditore? Alza la mano uno ogni tanto», si risponde sconsolata, anche se poi sottolinea come la presenza di startup innovative si stia rafforzando. Franco Amato, una brillante carriera tra politica e impresa, ex consigliere di Crt oggi anima di Avvallorando, evidenzia uno dei grandi limiti della città nella sua vocazione universitaria: «Torino forma stiudenti che non riesce a trattenere», uno sforzo che si rivela inutile, peraltro non riuscendo neppure a valorizzare quei suoi concittadini che studiano o lavorano all'estero. Ma il più critico è Peyron, che oltre a sfidare l’assessora traccia un quadro sconfortante di una città in «crisi di vocazione»permanente.  Un vero e proprio affondo: per lui Torino «non ha una vocazione, ogni 5 minuti ne troviamo una, per poi tornare con la testa bassa ai motori a combustione interna». Critiche che Pentenero ascolta e a cui prova a dare risposta, accettando almeno in linea di principio che la politica deve scegliere.

Chi non ci sta invece è Maurizio Vitale, erede della dinastia Kappa e ideatore del festival techno Kappa Futurefestival. Vitale, oggi presidente dell’agenzia turistica, è su un’altra onda: «Ho chiamato il festival futuro». Lui ci crede: «Sull’intrattenimento culturale credo che Torino sia leader a livello europeo. Il turismo vale il 7% del Pil della città metropolitana». Il suo consiglio è di armonizzare la governance, visto che ci sono 300 assessori alla cultura in città metropolitana. Forse troppi.

Una sorpresa (positiva) arriva dal direttore del Teatro Monterosa Massimo Garbi. Il suo teatro è nel cuore di Barriera, tra corso Giulio Cesare e i campi sportivi, e lui ci tiene a ribaltare la narrazione standard sul quartiere difficile: «Barriera di Milano ha più di 60 associazioni culturali, prima zona della città per associazioni», ha rivendicato, parlando di un quartiere con scuole in cui ci sono classi «senza neanche un italiano, con cui dobbiamo imparare a confrontarci».  Proprio sulle periferie Pentenero porta una novità proveniente dal tavolo col prefetto, convocato anche per parlare della riapertura dello Spazio 211. Parla di una soluzione a breve per l’ex Gondrand, l’area dismessa sotto la sede dell’associazione al momento abitata da persone con forte disagio sociale, che impediscono al club torinese di lavorare: «A breve sarà rasa al suolo, ma questo non sarà per forza positivo», avverte: «Perché quelle aree vanno riempite». Una responsabilità che va affrontata sapendo che il tempo è poco, evidenzia. Sulle scarse capacità relazionali dei torinesi, invece, vede una responsabilità diffusa: «Derivano dal nostro essere così, e cambiare spetta un po’ a tutti noi».