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Vecchia, depressa e ancorata al passato. Così Torino è rassegnata al suo declino

Fiducia in se stessa molto bassa, scarsa propensione nel valorizzare il merito. "Ci si colloca sulla base della propria appartenenza e non delle competenze". I giovani scappano e in una città sempre più anziana è quasi impossibile creare innovazione. La ricerca di Kkienn

Vecchia, chiusa, diffidente e ancorata a stilemi novecenteschi. Una Torino decadende, anzi declinante è quella che emerge dallo studio realizzato da Kkienn, società specializzata in ricerche sociali e di mercato che nel tentativo di scandagliare le ragioni profonde, economiche, sociali e culturali di questo ripiegamento, l'ha messa a confronto con centri urbani non sempre paragonabili per dimensione, posizionamento e storia, a livello internazionale (Copenaghen, Monaco, Lione, Manchester, Glasgow) e italiano (Bologna, Milano, Roma, Napoli, Verona). Un lavoro capillare condotto attraverso più di 3mila interviste che è stato presentato oggi a Palazzo Civico da Massimo Di Braccio.

Torino è una città che vive un clima di depressione: l’autostima e la fiducia in se stessi è del 43% inferiore alla media delle altre città europee prese in esame e anche le aspettative sono basse: ben lontana dai parametri è la consapevolezza di poter migliorare la propria condizione rispetto a quella dei propri genitori (-21%). E infine registra poca ambizione, situazione che porta a una scarsa propensione a intraprendere. La contrapposizione storica tra la grande industria e la classe operaia che ha segnato gran parte del secolo ferrigno ha per certi versi soffocato la nascita di una piccola e media borghesia in grado di emancipare Torino dalla monocultura targata Fiat. “Più che una borghesia proiettata verso il futuro qui abbiamo un’aristocrazia chiusa in se stessa, intenta a difendere le proprie rendite di posizione” afferma Di Braccio.

Quello di Torino è un ritardo innanzitutto culturale che parte dai rapporti sociali dei suoi cittadini, ancora più propensi a coltivare relazioni forti, con parenti o amici di vecchia data, piuttosto che network eterogenei, persone esterne al proprio ambiente sociale, associazioni di vario genere o entità. Sono i “weak ties”, i legami deboli, quelli che producono contaminazione e opportunità e sono quelli che meno di tutti vengono coltivati a Torino. Una città ancorata al Novecento con forte orientamento alla gerarchia e all’obbedienza. Un centro che si porta ancora dietro il retaggio di città di corte e di avamposto militare in cui è più facile farsi strada attraverso le reti familistiche e le dinamiche gerarchiche, coltivando sudditanza e obbedienza più che investire nel merito, nell'intraprendenza e nella creatività. Racconta un esperto di marketing tra gli intervistati dai ricercatori: “Siamo ancora in un sistema dell’appartenenza. A Milano c’è la meritocrazia, mentre qui se hai un’idea devi conoscere qualcuno”. E infatti è il 44% degli intervistati di Torino ad aver trovato lavoro attraverso la propria cerchia di amici e parenti, percentuale che scende al 35% per Monaco e Manchester e al 30% per Lione (a Napoli siamo al 51%). Un altro degli interpellati, un avvocato d’affari, spiega: “La difesa dei confini, delle realtà esistenti, dello status quo è molto più forte”.

La questione demografica è il principale problema, la zavorra a uno sviluppo culturale, sociale e anche economico. Laddove non ci sono giovani non c’è innovazione e a Torino i giovani sono sempre meno. L’età media si è alzata fino a superare i 47 anni (nella vicina Lione è 42, a Monaco 41): “I modelli di funzionamento di una società vengono rigenerati costantemente dalle nuove generazioni – spiega Di Braccio – è un meccanismo magico generato dall’interazione tra pari età. È in quel calderone che nasce l’innovazione e più quel calderone si restringe più quella spinta s’affievolisce. Qui i giovani sono pochi e senza alcun potere”. Torino è una città con tanti vecchi e scarsi talenti, i laureati (il 20% rispetto alla media delle altre città) sono pochi e quasi tutti legati a competenze tecniche, informatiche e ingegneristiche. Manca la creatività tipica della contaminazione e infatti c’è una scarsa capacità di costruire partnership.

C’è poi un gap d’impostazione negli imprenditori, poco propensi a innovare e a cooperare tra loro. Uno di essi ha ammesso: “Questa città ha deciso di  vivere di eccellenze che non si conoscono, ha deciso di costruire mille isole spesso una uguale all’altra, non far parlare nessuno con nessun altro”. Un cooperatore sociale aggiunge: “È come se ognuno facesse un po’ il suo: il Politecnico è un’eccellenza, la sanità è un’eccellenza, abbiamo una Compagnia di San Paolo, abbiamo gli incubatori di impresa, abbiamo un terzo settore”, tutti mondi che non parlano tra loro. E invece la competizione globale impone di fare sistema. Sotto la Mole anche fare sistema è stato equivocato, producendo un blocco di potere impermeabile e incestuoso. Nella ricerca emerge come meno di un terzo delle imprese torinesi abbia rilevanti legami di collaborazione e partnership con altre imprese (a Copenaghen il 61%, a Manchester il 53%, a Bologna il 34%, a Torino solo il 28%). E lo studio dimostra come le città in cui le aziende collaborano maggiormente mostrano tassi di crescita economica maggiori.

Qui una sintesi della ricerca

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