SACRO & PROFANO

Grandi manovre per il dopo Brambilla, i "boariniani" lanciano Prastaro

Tra meno di un anno il vescovo di Novara darà le dimissioni. A Torino la cerchia di monsignor Repole prepara il candidato: l'attuale titolare della diocesi di Asti. Passato e presente del "cattolicesimo democratico" targato Meic. L'impronta del dossettismo

Sono iniziate le grandi manovre per la successione del vescovo di Novara, monsignor Giulio Franco Brambilla, che tra poco meno di un anno darà le dimissioni. La “cupola boariniana” ha individuato come futuro successore di San Gaudenzio l’attuale vescovo di Asti, monsignor Marco Prastaro. Allo scopo è stato presentato il 19 ottobre scorso il suo nuovo libro dal titolo Dio dove sei finito? Inquietudini e interrogativi su una Chiesa che diviene minoranza (edizioni San Paolo). Il testo si inserisce nel filone che per giustificare lo stato quasi comatoso in cui versa la Chiesa in Italia, vuole rassicurarci che, come da decenni a questa parte,  la desertificazione delle chiese è «una gran bella opportunità» e a non preoccuparci se i cristiani sono diventati una sparuta minoranza, l’importante è «camminare insieme» – slogan veramente mai udito! – perché Dio non ci ha dimenticato ma è fra le pieghe oscure della storia, «là dove la vita si svolge, là dove la gente vive, soffre, prega e – soprattutto – pecca». Insomma, monsignor Prastaro pare proprio adatto a Novara dove resiste ancora un cattolicesimo troppo cattolico, un seminario con ancora troppe vocazioni e quindi da convertire. L’arcivescovo di Torino Roberto Repole scrive nella prefazione che il libro del suo compagno di cordata farà un gran bene perché è «un invito a percepire la realtà per quello che è, senza illudersi che torneranno i bei tempi andati», quando le chiese erano piene e i seminari gremiti e i cristiani non erano adulti. Miserando atque destruendo.

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Sono ancora in molti a ricordarsi del glorioso Movimento laureati di Azione Cattolica che, fondato nel 1932, fu uno dei centri di formazione degli intellettuali cattolici italiani del Novecento. Oggi esso ha assunto il nome di Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale) ed è un ristretto club della sempre più minoritaria galassia del progressismo cattolico che ha come scopo la formazione e l’animazione di quello che rimane del laicato colto. Il paradigma è naturalmente il dossettismo declinato nelle sue vari forme e che ha nella costituzione italiana la sua ideologia politica. A Torino il suo assistente spirituale era – ovviamente prima che ascendesse alla cattedra di S. Massimo – il teologo Roberto Repole. Recentemente, si è svolto a Casale Monferrato il convegno regionale del movimento dove già nel titolo – “Democrazia e sinodalità. La sfida della partecipazione” – risuonano i temi cari all’ideologia progressista. Intanto la chiara professione di quanto sia inutile «proporre soluzioni del passato» dove però non si capisce bene a quale passato ci si riferisca, forse a quello sì veramente passato che da sessant’anni costituisce la narrazione di quel cattolicesimo del quale il Meic è parte. E poi «sostenibilità non soltanto ecologica» degli attuali sistemi di governo delle società e delle collettività e, in ultimo, il senso del vivere comune, del “buon vivere” degli individui e delle comunità». Del senso ultimo del vivere, degli orizzonti soprannaturali, di Gesù Cristo insomma nemmeno l’ombra. Infine, la triade in ordine progressivo: Costituzione italiana, Concilio Vaticano II, Vangelo.

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Il paradigma dossettiano della triade è perfetto: prima la Costituzione intesa come testo sacro, poi il Concilio, poi il Vangelo. Per Dossetti la costituzione popolare, non il popolo, è il nuovo sovrano poiché la sovranità popolare si è espressa una volta per tutte nella Costituzione, in essa lo Stato non deve limitarsi ad amministrare e governare la società ma deve piuttosto darle forma, educarla, indurne e informarne la crescita, di qui la sua sintonia con la sinistra e di qui, fino alla rottura, il contrasto con Alcide De Gasperi. Di qui anche l’idea di una peculiare legittimazione democratica della magistratura da realizzare per vie diverse da quelle dell’investitura popolare affidandole il compito di guardiano della Costituzione anche e soprattutto, se necessario, contro la maggioranza espressa in sede elettorale.

Il ruolo di Giuseppe Dossetti al Concilio fu certamente importante e vissuto come l’occasione per un «nuovo inizio» della Chiesa ma, come è noto, ciò insospettì Paolo VI. Il perito del cardinale Giacomo Lercaro, alla luce della sua esperienza di costituente, voleva ottenere una verifica dei reali rapporti di forza all’interno del Concilio, cioè instaurare una dialettica politica in una materia che politica non può essere, come giustamente ricorda sempre – anche se contraddittoriamente – papa Francesco. Paolo VI comprese che Dossetti voleva introdurre una dialettica formale tra conservatori e progressisti, proprio quello che egli doveva per principio e per il suo ruolo evitare. Decise così di far distruggere le schede preparate all’uopo da don Dossetti perché un Concilio non è un’aula parlamentare. Da allora, iniziò la favola, divulgata soprattutto dalla scuola di Bologna diretta da Giuseppe Alberigo, del Paolo VI “traditore” e “affossatore” del Concilio. Poco prima della sua morte Francesco Cossiga, ai tempi presidente della Repubblica, ebbe un incontro con il monaco Dossetti poco prima della sua morte. Dichiarò di aver avuto la sensazione, durante il colloquio, di trovarsi di fronte un personaggio affascinante per il quale mentre la Costituzione era un testo intangibile e intoccabile, il Vangelo poteva essere sottoposto anche nei suoi passi più chiari ed inequivocabili, ad ogni interpretazione. Così scrisse di lui sul Corriere della Sera: «Democratico, Giuseppe Dossetti lo era, ma altrettanto certamente non liberale, tanto da potersi in fondo considerare un cattolico integralista-democratico, certo più teologo che politico». Nei suoi colloqui con Pietro Scoppola e Leopoldo Elia, il monaco di Monteveglio ebbe ad affermare: «Mi ricordo che una volta Togliatti disse di me a De Gasperi: “Se non avesse quella fede che ha, sarebbe un ottimo comunista”».

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Ad una settimana dalla sua chiusura, poco o nulla filtra dalle spesse mura della città proibita del sinodo. Secondo il National Catholic Register entrambi i segretari speciali incaricati di scrivere il cruciale documento di sintesi, il gesuita padre Giacomo Costa e monsignor Riccardo Battocchio, hanno da tempo preso interesse pubblico alle questioni relative alla omosessualità. Il primo è stato fra i sostenitori del testo di legge Zan nel 2021 e il secondo ha presentato nel 2015 il libro intitolato Amore Omosessuale.

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Dopo il digiuno e la preghiera di martedì scorso da lui proclamati, il patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha lanciato l’allarme per la vita dei 500 cristiani che si sono rifugiati nella chiesa latina di Gaza City: «Gli avvertimenti sono arrivati, la nostra comunità ha deciso di restare. Prima di tutto perché non sanno dove andare e poi perché dicono che nella Striscia di Gaza nessun luogo è al sicuro. È bello vedere come nonostante tutto riescano a mantenere una fede salda, che non è stata scossa neanche da queste bombe. Sono molto preoccupato di questo enorme carico di odio che c’è dovunque. Siamo talmente pieni di dolore che non riusciamo a vedere il dolore degli altri e questo ci acceca».

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Qualcuno ci ha chiesto conto in merito all’uso delle maiuscole e alle minuscole da usarsi relativamente a chiesa, concilio, vescovo, papa etc. Non abbiamo un criterio definito ma certamente, dopo Nostro Signore, la maiuscola la usiamo – contrariamente alla scuola di Bologna – per la Chiesa, così come per il Vangelo che la stessa scuola scrive invece in minuscolo. A questo proposito il cardinale Giacomo Biffi racconta che un tizio gli chiese perché i teologi scrivessero sempre chiesa cattolica in minuscolo e poi nella stessa pagina Consiglio Presbiterale in maiuscolo: «Ho cercato di spiegargli che era per via della ecclesiologia di comunione e per evitare il grande pericolo dell’ecclesiocentrismo, ma non penso di averlo persuaso».  

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