SACRO & PROFANO

Repole difende l'unità del Sinodo (e promuove il "modello Torino")

Cresce la sua notorietà nella Chiesa italiana mettendo in luce la diocesi subalpina come riferimento per il famoso "ripensamento" delle strutture. Tradotto: imparare a gestire curia e parrocchie con meno personale. Malumore tra i preti per le parole del papa

Si è chiuso nei giorni scorsi il Sinodo sulla sinodalità e dalla relazione finale appare come essa sia stata molto sul vago soprattutto sulle tematiche che si sarebbero dovute affrontare. Come ha osservato uno dei pochi sinodali non allineati, il cardinale Ludwig Müller, esso non è stato che una preparazione alla seconda sessione del 2024 che dovrebbe portare la Chiesa cattolica verso una sempre meno larvata “protestantizzazione”, soprattutto rispetto all’interpretazione del ministero ordinato e della sua essenziale differenza rispetto al sacerdozio battesimale. Distolta dal dramma della guerra in Medioriente, l’impatto del Sinodo sull’opinione pubblica è stato praticamente nullo se non in quei circoli clericali che vivono di questi eventi. In generale, il silenzio di stampo nord-coreano imposto dal papa sui dibattiti, limitando a tre minuti il dibattito in aula e secretando gli interventi, ha funzionato. Nel campo dei progressisti – dove le attese sui risultati del Sinodo erano molte – serpeggia qualche delusione, ma ci si rende conto che alcuni passi hanno segnato una svolta irreversibile nella prassi ecclesiastica.

Se ne è fatto interprete il vaticanista del Fatto, Marco Politi, notando, tra l’altro, come anche dietro la disposizione dei trentacinque tavoli, che ricordano la cena di gala di una crociera di lusso o di un casinò, si celasse la ferrea strategia del papa il quale ha comunque raggiunto alcuni risultati: l’ingresso dei laici e in particolare delle donne con diritto di voto ad un Sinodo, che per sua natura è dei vescovi, rappresenta appunto una svolta dalla quale non si tornerà indietro. Il secondo obiettivo è stata la votazione sui temi del diaconato femminile (277 sì, 69 no) o del celibato sacerdotale (291 sì, 55 no) o del recupero degli ex preti in responsabilità parrocchiali in cui l’opposizione non ha superato mai più del 20 per cento dell’assemblea, tenuto conto che non era più possibile, come in passato al concilio o nei precedenti sinodi, il voto placet iuxta modum. Il terzo obiettivo centrato è per il papa aver posto la Chiesa in una continua e grande transizione in cui più nulla è immutabile. Il progetto di Bergoglio si fonda su pazienza e tenacia. La resilienza della tartaruga appunto. È indubbio, però, che la sessione finale del Sinodo nell’ottobre del 2024 dovrà produrre un documento con alcune decisioni ben definite. Ed è lì che l’opposizione del 20 per cento potrebbe incontrare la resistenza dei moderati e dei tradizionalisti andando oltre anche il 30 per cento bloccando così innovazioni sgradite. La battaglia è appena cominciata.

Scaltrissima è stata la prudenza dell’arcivescovo Roberto Repole che ha sapientemente taciuto per tutto il Sinodo, ma che poi si è fatto intervistare da TV2000 e poi dall’agenzia cattolica AgenSir con l’effetto di aumentare il suo prestigio e la sua notorietà nella Chiesa italiana mettendo in luce la diocesi di Torino come riferimento per il famoso «ripensamento» delle strutture che, tradotto dalle teorie ecclesiologiche nella realtà, significa come imparare a gestire tutto ciò che c’è da gestire avendo meno personale. Egli comunque – e di questo gliene va dato atto – cita spesso Gesù Cristo, anche se le sue citazioni ondeggiano tra il sentimentale e il nostalgico, tra radicalismo biblico e psicologismo. Ancor più scaltra e intelligente è stata l’intervista rilasciata a AgenSir nella quale, tra le varie cose, si premura di ribadire che al Sinodo ci sono state sensibilità differenti ma non è mai venuta meno l’unità. Il punto è però capire se le donne diacono, la benedizione o meno delle coppie omosessuali, l’ammissione ordinaria dei divorziati risposati alla comunione siano temi irrilevanti o marginali che riguardano diverse sensibilità oppure siano elementi strutturali della fede della Chiesa. L’intervista è stata una mossa importante per l’autopromozione in quanto l’agenzia Sir viene letta quotidianamente da tutti i vescovi, da tutti i vicari generali ed episcopali e da tutti i preti che contano in Italia. A riprova che a fronte di una apparente ingenuità o candore, la lobby “boariniana” calcola bene i propri passi e sa come andare al bersaglio. Tutto ciò tornerà utile per la promozione del sodale monsignor Marco Prastaro dalla diocesi di Asti a quella di Novara. Con buona pace di monsignor Giulio Franco Brambilla che, al contrario di Repole, non ha resistito alla tentazione di diffondere tra i preti novaresi il suo pomposo intervento al Sinodo. Nel quale mostra tutta la sua reale ed effettiva competenza teologica, ma in cui ha cercato di fare a tutti i costi l’equilibrista, forse per riabilitarsi agli occhi dell’ombroso papa Francesco, specialmente ora che è prossimo alla scadenza e con la prospettiva di vedersi arrivare come successore un missionario destrutturato teologicamente e molto più orientato a sinistra di lui.

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Diffuso è il malumore e l’irritazione di non pochi preti, specie dei più impegnati nella pastorale vera – non quella dei dibattiti e dei convegni – a seguito delle parole pronunciate dal papa mercoledì sera nell’intervista rilasciata al Tg1 dove, con il solito linguaggio semi-triviale, li ha tacciati di «zitelli» prendendosela poi, come sempre, con gli «indietristi». Nulla di nuovo. Mai si è udita una sua parola di comprensione o di incoraggiamento verso un ministero – quello del prete – sempre più difficile, sempre più oberato di impegni extra-sacramentali, privo ormai di ogni riconoscimento sociale, disorientato e affaticato a fronte di un laicato «adulto», completamente irresponsabile ma sempre pronto – e invitato dall’alto – a impartire lezioni e lezioncine. Adesso poi, come previsto dal documento finale del Sinodo, avranno anche la gioia – si fa per dire – di avere come aiutanti gli ex preti, quelli che hanno lasciato il ministero e che, ammogliati o maritati, si aggiungeranno ai dispensatori di consigli. L’acredine di Bergoglio verso i giovani preti è comunque del tutto comprensibile. Egli appartiene alla schiera – ne abbiamo ancora molti nelle nostre diocesi – dei preti sessantottini i quali, quando non arrivarono ad abbandonare il ministero sacerdotale sulla scorta dell’ecclesiologia riformata ma senza alcuna base nel Concilio, ne destrutturarono i fondamenti, riducendo il prete a un presidente della comunità o a un cappellano del consiglio pastorale. Per cui quando vedono dei giovani – figli della stagione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – che riflettono l’immagine di prete cattolico da loro tanto avversata – vanno su tutte le furie, senza mai fare nemmeno un minimo di autocritica. Ed è per questo che il documento finale del Sinodo si sofferma a lungo sulla formazione dei presbiteri. Torino in questo senso ha tutto da insegnare. Anche nei risultati…

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Tempo fa lo Spiffero aveva sollevato il problema delle anime del Purgatorio e del suffragio che la Chiesa dovrebbe offrire per esse con le preghiere e le Messe, mettendo in evidenza come tale dottrina sia entrata in crisi poiché moltissimi vescovi e preti oggi – sulla scia delle confessioni riformate – non ci credono più. Adesso, molto più autorevolmente, è sceso in campo don Lucio Casto, classe 1947, ordinato nel 1975, stimato docente della facoltà teologica di Torino e membro del consiglio presbiterale, il quale può essere annoverato fra quei progressisti moderati che si rendono conto della inquietante deriva dottrinale verso la quale la Chiesa è incamminata. Con il garbo e la pacatezza che lo contraddistingue, don Lucio ha scritto una lettera al settimanale diocesano in cui, notando che ormai anche per i defunti la Chiesa si è adeguata al linguaggio dominante, osserva come in essa si parli soltanto di celebrazioni, rosari e preghiere «in ricordo» dello scomparso; ponendosi una domanda: «è corretto teologicamente parlare solo di ricordo?». E – constatando come la dottrina del Purgatorio nella Chiesa sia ormai scomparsa dalle omelie in quanto «è ormai per molti un tema su cui si hanno idee vaghe che sembrano riconducibili solo a credenze popolari ormai desuete, su cui si preferisce non rischiare una riflessione che appare troppo difficile da comprovare con Bibbia alla mano e con la buona teologia» – ricorda invece che, secondo la fede della Chiesa, «nella Messa il santo sacrificio di Cristo viene offerto al Padre anche in soccorso di quei defunti che per qualche residuo di peccato sono impediti dall’entrare nella piena comunione con Dio nella beatitudine del Cielo». Ma vi è molto di più. Nella catechesi dei Novissimi – le cose ultime, morte, giudizio, inferno paradiso – ormai non vi è più traccia e si afferma tranquillamente che dopo la morte ci sarà per tutti «l’abbraccio misericordioso del Padre e l’immediato ingresso nella beatitudine eterna», tacendo espressamente su molte pagine del Vangelo che invece dei Novissimi ne parlano eccome. Per tale effetto, i defunti possono essere solo ricordati come in qualsiasi cerimonia laica o simil massonica. In proposito, don Lucio ricorda come anche il manuale commissionato dal papa – Che cosa è l’uomo? (Lev 2019) – sia «totalmente sbilanciato su testi dell’AT» mentre invece la dottrina cattolica del Purgatorio «ha il merito di essere realistica sul reale stato spirituale di gran parte dell’umanità davanti alla severità e alla misericordia del giudizio di Dio, lasciando il cuore grandemente aperto alla speranza nell’ampiezza della redenzione, come opportunamente ha insegnato papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi. Una sola osservazione. Ha fatto bene don Casto a sollevare un problema rispetto al quale le discussioni del sinodo fanno sorridere, ma forse i suoi giusti interrogativi avrebbe dovuto essere rivolti in primis ai colleghi della facoltà. Ci credono ancora al Purgatorio e a tutto quello che ne discende? Memorare novissima tua.

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Si sta celebrando il cinquantesimo anniversario della morte di Jacques Maritain (1882-1973), uno dei più importanti filosofi cattolici del Novecento che, più di ogni altro, avvicinò i cattolici alla democrazia allontanandoli, soprattutto in politica, dalle posizioni intransigenti. Fu grande amico di Paolo VI che lo considerò suo ispiratore e al quale consegnò simbolicamente, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il «Messaggio agli uomini di cultura e di scienza». Nel dopo concilio, che in lui suscitò grandi speranze, Maritain fu protagonista di due episodi che les historien du dimanche progressisti si guardano bene dal ricordare. Nel 1967 egli viveva a Tolosa fra i Piccoli Fratelli di Gesù di Charles de Foucauld e pubblicò un libro che suscitò un grande scalpore, Les paysan de la Garonne, una impietosa critica alla chiesa postconciliare che, con una immagine famosa e del tutto oggi più che mai attuale, giudicava «inginocchiata davanti al mondo». L’anno seguente, lo stesso Paolo VI, in occasione dell’Anno della Fede, volle che fosse formulata, in risposta al Catechismo olandese e alla messa in discussione di vari dogmi, una chiara ed esplicita professione della fede cattolica che ricalcasse il Credo di Nicea recitato in ogni Messa, ma con importanti complementi e sviluppo in cui, per fare soltanto un esempio, si affermasse – come sarebbe poi avvenuto – che nel pane e nel vino consacrati Cristo è presente vere, realiter et substantialiter e che «questa conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino hanno cessato di esistere dopo la consacrazione e da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad essere realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino, proprio come il Signore ha voluto» .Oppure, per rimanere in tema: «Noi crediamo che le anime di coloro che muoiono nella Grazia di Cristo, sia che debbano ancora essere purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Risurrezione, quando queste anime saranno unite ai corpi». A scrivere la traccia di quello che diventerà poi «Il Credo del Popolo di Dio» e che Paolo VI pronuncerà solennemente durante la Messa in piazza San Pietro il 30 giugno 1968, fu proprio Jacques Maritain.

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Doveva succedere ed è successo. La croce che stava al centro dell’altare papale della basilica di San Pietro e alla quale Benedetto XVI, oltre ad averne scritto, teneva tanto ma che tanto dava fastidio ai liturgisti, è stata rimossa in modo che la mensa del Sacrificio assuma sempre più le sembianze della tavola riformata. Così rimane senza risposta la domanda di Benedetto XVI: «Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato dell’altare per lasciare libero lo sguardo dei fedeli sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucarestia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore». 

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