POLITICA & GIUSTIZIA

Intercettato illegalmente 500 volte, il caso Esposito al Parlamento

La vicenda dell'ex senatore Pd approda dove i magistrati torinesi avrebbero dovuto rivolgersi per chiedere l'autorizzazione prima di registrare le sue telefonate. A sollecitare l'intervento del ministro Nordio sono l'ex guardasigilli Orlando e il "turco" Orfini

Approda in Parlamento, più precisamente sullo scranno del ministro della Giustizia Carlo Nordio, la vicenda delle intercettazioni effettuate dalla Procura della Repubblica di Torino nei confronti dell’allora senatore del Pd Stefano Esposito. Intercettazioni che, come noto, erano state effettuate e inserite nell’inchiesta ribattezzata “Bigliettopoli” e che avrebbe visto indagato e poi imputato lo stesso Esposito, insieme all’amico Giulio Muttoni, organizzatore di eventi musicali, conosciuto come “mister 24mila baci”, tanti quante sono state le volte in cui è stato intercettato. Nel caso di Esposito sono centinaia di conversazioni telefoniche captate senza che i magistrati avessero mai richiesto l’indispensabile autorizzazione al Senato e per questa ragione, in seguito, dichiarate inutilizzabili dalla Corte Costituzionale.

A rivolgere l’interpellanza al guardasigilli per sapere “di quali atti disponga circa il procedimento disciplinare avviato presso Consiglio Superiore della Magistratura” a carico del pubblico ministero Gianfranco Colace e il gip Lucia Minutella accusati di “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”, sono due parlamentari di primo piano del Partito Democratico, Andrea Orlando Matteo Orfini: il primo tra i leader della sinistra interna e indiretto predecessore di Nordio nel dicastero di via Arenula, il secondo ex capo dei “giovani turchi” dalemiani e presidente del partito dal 2014 al 2019. Ripercorrendo la vicenda, i due deputati dem chiedono al ministro anche “se e quali iniziative di competenza, anche di carattere normativo, intenda adottare al fine di salvaguardare il bilanciamento tra le esigenze investigative e quelle relative al diritto di riservatezza e al diritto di difesa”. 

Dietro il linguaggio, in alcuni passaggi non poco involuto, quel che si legge con gli occhiali della politica e lo sguardo rivolto alla magistratura (o, meglio, a una parte di essa) mostra una mossa per alcuni aspetti inattesa da esponenti di una forza politica che certo, eccetto rari casi (tra cui lo stesso Esposito, ancor prima di pagarne sulla sua pelle lo scotto), non ha brillato, né brilla tutt’ora sotto la luce del garantismo. Ma proprio questo appare l’ulteriore attestazione dell’abnormità di quanto accaduto, o meglio compiuto dai magistrati torinesi oggi sottoposti a procedimenti disciplinari: il pm Gianfranco Colace e la gip Lucia Minutella (che aveva disposto il rinvio del senatore) per questa vicenda, anche se a Palazzo dei Marescialli vi sarebbero numerose altre procedure aperte o in fase di istruttoria.

Insomma, di fronte alla palese e reiterata violazione delle guarentigie parlamentari, anche chi non fa mistero di occhieggiare spesso verso il giustizialismo dei Cinquestelle (che, non a caso, non votarono per il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale per il caso Esposito), ha deciso anche se un po’ tardivamente di battere un colpo. Quando a Palazzo Madama ci fu quel voto, verso la fine del 2022, da sinistra si levò decisa la voce dell’ex presidente del Senato e già magistrato Pietro Grasso, il quale espresse la necessità di “una segnalazione al ministro della Giustizia, al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e al Consiglio superiore della magistratura, finalizzata ad attivare nei confronti dei magistrati competenti un procedimento disciplinare in relazione alle violazioni dell'articolo 68 della Costituzione, nonché della legge 140 del 2003”. Voce forte, ma quasi isolata quella di Grasso. Adesso due esponenti della sinistra, tra cui un ex ministro della Giustizia, portano la questione al cospetto di un guardasigilli che del garantismo ha fatto la sua missione e che proprio sull’utilizzo delle intercettazioni e la necessità di limitarlo ha improntato la riforma, ricevendo valanghe di critiche proprio dal fronte giustizialista delle opposizioni.

Intercettato 500 volte in tre anni, dal 2015 al 2018, indagato e poi rinviato a giudizio proprio grazie all’utilizzo di un centinaio di quelle intercettazioni che non si sarebbero dovute e potute effettuare senza la necessaria autorizzazione della Camera di appartenenza, Esposito ha visto riconosciute le sue ragioni solo lo scorso anno con la sentenza della Consulta che suona come una solenne bastonata alla condotta dei magistrati torinesi. Nel dispositivo (redattore Stefano Petitti) si dichiara, tra l’altro, come “non spettava alle autorità giudiziarie che hanno sottoposto ad indagine e, successivamente, rinviato a giudizio Stefano Esposito, disporre, effettuare e utilizzare intercettazioni rivolte nei confronti di un terzo imputato, ma in realtà univocamente preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare, senza aver mai richiesto alcuna autorizzazione al Senato della Repubblica”. La Corte Costituzionale evidenzia inoltre come l’inchiesta venne orientata “in indirizzi investigativi chiaramente e univocamente rivolti ad approfondire la sua (di Esposito, ndr) eventuale responsabilità penale”. E siccome ci fu una attività di intercettazione in questo senso, era necessaria l’autorizzazione preventiva, che mai venne richiesta dalla Procura della Repubblica di Torino che dal canto suo ha sostenuto che l’autorizzazione non sarebbe stata necessaria per il carattere “casuale” e “indiretto” delle intercettazioni non essendo quello di Esposito, ma del suo interlocutore, il telefono sotto controllo. Tesi respinta dalla Consulta che, considerando il coinvolgimento di Esposito nelle indagini almeno dal 2015, sarebbe stato indispensabile richiedere l’autorizzazione al Parlamento. Una bocciatura su tutta la linea quella nei confronti del pm Colace (e pure della gip Minutella), che proprio su quella conversazioni aveva basato il castello accusatorio poi crollato, come peraltro non pochi altri casi di inchieste avviate dal pm torinese. 

Una brutta pagina per la giustizia, durata anni e che solo il pronunciamento della Corte Costituzionale, arrivato dopo una lunga battaglia dell’ormai ex parlamentare, ha riscritto nella maniera corretta. Dal suo partito, eccetto quella di Grasso, nessun altra voce di levò con eguale fermezza nei confronti della condotta dei magistrati. Anche per questo la pur tardiva interpellanza di Orlando e Orfini va letta come l’impossibilità di restare in silenzio di fronte a quanto, di grave, è stato compiuto.

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