SACRO & PROFANO

Repole, omelia con tutti i crismi

Le belle riflessioni dell'arcivescovo di Torino alla Messa crismale sul compito sacerdotale. Invero disastrosa la liturgia, per tacere dei gorgheggi di don Tomatis. L'onestà intellettuale di mons. Anfossi, protagonista indiscusso della stagione post Conciliare

Alla Messa Crismale del Giovedì Santo al Santo Volto l’arcivescovo di Torino Roberto Repole ha pronunciato una bella omelia a braccio, citando i Padri della Chiesa e dicendo fondamentalmente due cose: i sacerdoti sono uomini «unti dallo Spirito», e non devono smarrirne la memoria, tale unzione è da offrire a tutti gli uomini proprio attraverso l’esercizio del ministero. Tuttavia, e il clero lo ha notato, in essa permane l’insistenza – tutta “boariniana” – sul limite, sull’insufficienza (non solo numerica) del clero, sulle ferite e su tutto quanto possa essere utile al ripiegamento sentimentalistico su sé stessi. Prova ne sia che la pur bella meditazione è rimasta prigioniera tra il passato «dell’unzione» e il «futuro escatologico» nel quale si vedranno i frutti, saltando lo specifico del cattolicesimo: il presente! È infatti nel presente che veniamo salvati anche dal limite; è nel presente che siamo risanati davvero dalla Grazia soprannaturale; è nel presente che siamo chiamati a costruire il Regno di Dio e a riconoscere dai frutti la bontà dell’albero. L’assenza dell’attenzione alla Presenza è sintomatica di una certa affinità con il mondo della Riforma protestante, prigioniero tra memoria ed attesa, ma senza Presenza. In fondo è una linea teologica più volte emersa e che si caratterizza nella rinuncia all’evangelizzazione o apostolato (la parola proselitismo, pur di matrice neotestamentaria è ormai impronunciabile) e nella rinuncia a proporre la dimensione sociale, temporale e regale di Gesù Cristo.

Davvero disastrosa, invece, è stata la liturgia. Intanto è rifulsa la storica insufficienza dei cerimonieri. Come è noto, da sempre la diocesi ha visto un solo cerimoniere tuttofare, incapace di avere collaboratori, indispensabili per l’ordine della celebrazione; pare che il “nuovo corso” in questo campo sarà come il vecchio. Così i ceri non  guidati, sono arrivati in ritardo rispetto all’Evangeliario vagando per il presbiterio, il diacono non sapeva se e quando iniziare a leggere le preghiere dei fedeli e ripeteva, leggendolo, il ritornello cantato; la processione offertoriale non sapeva come procedere, avendo come apri-fila una bambina, per non parlare della catechista, presentatasi in tuta da ginnastica, evidentemente incerta tra la palestra e la Messa del Crisma; fino alla distribuzione della Santa Comunione, durante la quale tanti laici, come i sacerdoti, si sono auto-comunicati sub utraque specie per intinzione, sotto lo sguardo assente (o semi-ebete?) dei diaconi; per arrivare al modo grossolano di trattare le particole consacrate da parte del cerimoniere, che travasandole da un estremo all’altro dell’altare, ne ha fatte cadere parecchie fuori dal corporale. Un vero disastro che ha poi raggiunto l’apice della sciatteria la sera del Venerdì Santo, durante la Via Crucis cittadina, quando l’arcivescovo è comparso infagottato in un cappottone insieme al super liturgo diocesano che indossava per l’occasione una specie di camauro di lana.

Ritornando alla Messa del Crisma, preferiamo tacere sui canti e sui “gorgheggi” di don Paolo Tomatis, che si crede un usignolo ma che è apparso una specie di paperino. Ottima l’idea di ricordare i sacerdoti defunti nell’anno durante il Canone. Un capitolo a parte lo merita il saluto del vescovo ausiliare, monsignor Alessandro Giraudo, il quale non ha ancora compreso la differenza tra l’essere vicini di stanza in seminario ed essere vicario generale ed arcivescovo. Non ha ancora compreso che gli auguri vanno fatti a nome del Presbiterio e non a titolo personale, con effusioni empatiche inadatte e personalismi criptici ed esclusivi contrari alla conclamata inclusività della teologia umile. Quest’anno monsignor Giraudo ha portato l’arcivescovo in cantina, dopo averlo condotto, lo scorso anno, in soffitta. Quanto ancora il clero sarà obbligato a vagare nei loro «luoghi speciali»? Lo scopriremo il prossimo anno. Per ora non ci resta che constatare l’inadeguatezza della rinuncia a quella forma che invece, se ben usata, salvaguarda tutti i rapporti e tutti gli equilibri. L’allocuzione di Giraudo – e non era facile – ha fatto rimpiangere gli auguri di don Valter Danna a monsignor Cesare Nosiglia.

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In questi giorni è stata ricordata, a vent’anni dalla sua scomparsa, la figura di don Vittorio Morero, prete pinerolese, giornalista di razza e prolifico scrittore, protagonista del dibattito ecclesiale e politico. Don Morero, che oggi viene incasellato – un po' come don Giovanni Barra – nello stereotipo del prete progressista e che abbiamo frequentato e ben conosciuto, era un uomo libero. Non ebbe esitazioni a togliere dall’oblio e dalla damnatio memoriae la figura di monsignor Stefano Tinivella il quale, se fosse diventato arcivescovo di Torino, lo avrebbe voluto direttore dei settimanali diocesani. Nel 1976 scrisse un profilo del cardinale Michele Pellegrino (Michele Pellegrino. Bilancio, Esperienze 1976) che, per i suoi giudizi, non piacque per nulla all’establishment diocesano e che gli guadagnò l’ostracismo dei faziosi di allora (e di oggi)  in quanto infrangeva la vulgata diffusa dai comunisti: «Michele Pellegrino era il successore del cardinale Maurilio Fossati. Le passioni di questi anni hanno accentuato esageratamente quel momento di trapasso, come se all’arrivo di Pellegrino la diocesi di Torino fosse in stato di depressione. Interpretazione questa non solo ingiusta, ma decisamente funzionale alla polemica che gli innovatori un po’ fanatici nutrono verso il passato… Torino era già allora, e molto prima di Pellegrino, una diocesi che sentiva i tempi nuovi e viveva il travaglio del momento. E se negli ultimi anni la mano di Fossati si era fatta meno decisa e marcata, ciò aveva favorito quella crescita pluralista che Pellegrino non ha inventato, ma ereditato, certo per un ulteriore sviluppo arricchimento nella prospettiva del “camminare insieme”. E Torino aveva già camminato. Dire che Torino era allora in mano al cosiddetto gruppo di monsignori è una di quelle semplificazioni che non hanno giovato e mancano di caratura storica. Che è poi lo stesso quando si dice che le esperienze conciliari sono state inventate di sana pianta a Torino senza radici e senza continuità di spirito. Nulla di più errato. La documentazione di una Chiesa torinese decisamente sveglia non mancano».

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Approssimandosi ai novant’anni e al sessantacinquesimo di Messa, anche monsignor Giuseppe Anfossi, vescovo emerito di Aosta e protagonista di primo piano del post Concilio torinese, traccia un bilancio della sua lunga vita al servizio della Chiesa. Lo fa evitando la tentazione dell’autocelebrazione con una onestà intellettuale che gli fa onore. Riconoscendo quindi il vasto suo debito di riconoscenza verso l’indimenticato rettore del seminario monsignor Giuseppe Pautasso che lo teneva come suo pupillo e che Pellegrino estromise bruscamente (commettendo uno dei suoi più gravi errori); «l’esasperata sperimentazione di novità»  che caratterizzò il suo vicerettorato del seminario regionale delle vocazioni adulte dal1991 al 2000; l’aver  meritato il rimprovero di essere stato più fratello che padre dei giovani a lui affidati; l’ essere vissuto «scaricando un po’ la responsabilità del dare il buon esempio su don Giovanni Barra, rettore e santo»; fino ad ammettere che «ero un po’ l’intellettuale aggiornato e anche un po’ laico che si interessa di molte cose e fa molte cose e studia anche all’università prima psicologia e poi sociologia. Ero però anche un po’ inquieto e non sempre un buon prete». Una delle cose che salvarono il suo sacerdozio fu «la bellezza e lo zelo con cui celebravo ogni sera l’Eucaristia nella cappella del seminario in via XX Settembre a Torino». Un ritratto che è un po’ – per certi versi – quello di una generazione di preti che vissero il Concilio e il post Concilio con generosità e speranza, ma anche coltivando molte illusioni. I travagli della Chiesa di oggi che – come riconobbe Jacques Maritain – appare sempre più «inginocchiata di fronte al mondo», derivano per gran parte da quelle esperienze. Riconoscerne i limiti non è da tutti.

Credits: foto Messa crismale di Mihai Bursuc diocesi di Torino

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