Buozzi, sindacalista riformista

Oggi, mercoledì 5 giugno, presso la sala della cooperativa sociale “La rosa blu” verrà ricordata la figura di Bruno Buozzi a cento anni dalla morte per mano nazista il 4 giugno del 1944. L’imprevedibilità della vita è confermata dal fatto che dei due camion che dovevano portare i partigiani e i civili verso la morte, uno si guastò. Buozzi era su quello funzionante; sull’altro, Iole Mancini, 104 anni a febbraio ’24, staffetta partigiana, gappista, prigioniera e torturata a via Tasso e autrice del bel libro “un amore partigiano” si salvò. Buozzi fu non solo un leader sindacale ma uno dei padri fondatori di quello che divenne il sindacato confederale italiano; rappresentava la componente socialista. Il patto fu firmato il 9 giugno 1944 a Roma tra Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi ed Emilio Canevari che sostituiva, appunto Buozzi; ma venne apposta la data del 3 giugno per onorare la memoria del compagno appena ammazzato.

Importante ricordare i fatti storici a futura memoria di cosa fu la tragedia politica del nazifascismo ma vorrei ricordare soprattutto l’idea che incarnava Bruno Buozzi, quella di un sindacato riformista. L’azione costante e tenace rifiutando la violenza, la costanza e la temperanza politica erano alla base del suo pensiero. Il fatto interessante è però che questo dibattito nasca su proposta di un gruppo di studenti universitari che, oggi, vogliono interrogarsi sul significato della parola riformismo e su come, partendo dall’esempio militante di un sindacalista come Buozzi, sia possibile agire percorrendo l’ispirazione riformista.

Il tema è attualissimo proprio a partire dall’università, dove le occupazioni guardano a disvalori estremi. Oppure ascoltando l’estremismo politico della campagna elettorale per le europee. Riflessione attuale anche in casa sindacale dove sovente si scambia il riformismo con il moderatismo mentre invece l’idea riformista ha una sua anima radicale nella determinazione a portare avanti le proprie idee e scelte. Riformismo è il contrario di accondiscendimento, di subalternità. Il riformismo ha una sua radicalità nei principi etici e nei valori morali come l’aveva posta Enrico Berlinguer. Il nostro mondo, quello sindacale, deve avere una sua intransigenza perché usiamo per l’azione sindacale i soldi dei lavoratori e lavoratrici e perché i nostri atteggiamenti personali sono riferimento per chi ci guarda e segue.

Allora discutere di riformismo, con e su idea di giovani studenti assume un significato importante, direi una speranza e prospettiva necessari se si vuole provare a ribilanciare un dibattito politico ma anche sindacale e cambiando, così, identità al sindacato confederale. Per contro il moderatismo scambiato per riformismo diventa limitazione dell’autonomia sindacale verso il governo. Quando ero un giovane sindacalista i più anziani mi spiegavano che i più tenaci sostenitori dell’autonomia sindacale erano proprio i cislini democristiani, perché rivendicavano la loro libertà d’azione e pensiero rispetto all'ingombrante partito di riferimento.

Riformismo è tenacia e costanza nel perseguire gli obiettivi senza cercare scorciatoie. E infatti un sindacato riformista ha come base la contrattazione che è fatta di piccoli passi ma costanti, di ripartenze, di rilanci ma sempre con determinazione. Il riformismo sindacale è uno stile, un modo di essere più radicale dell’estremista e anche più difficile da realizzare perché non si basa sulla sconfitta di una delle parti ma sul confronto e la mediazione tra le parti. Anche nei conflitti tragici di questi mesi gli estremisti, che siano terroristi organizzati o capi di stato, vogliono l’annientamento dell’avversario mentre la pace è possibile solo se ci sono condizioni di equilibrio tra le parti. La mediazione è riformismo.

Bruno Buozzi, insieme a Grandi e Di Vittorio, seminarono bene e molti raccolsero il loro testimone; Luciano Lama e Pierre Carniti furono, ognuno con le sue specificità, riformisti. Giulio Pastore e Bruno Trentin – ma anche i tanti sindacalisti sui territori che umilmente e silenziosamente, ogni giorno portarono  e portano l’idea di un sindacato educatore, modello etico e riempiono di contenuti e proposte la loro azione – sono la base del riformismo. Gli stessi relatori da Giorgio Benvenuto a Raffaele Morese e Paolo Franco hanno rappresentato un sindacato riformista dove “l’idea” riformista sta nel perseguire il bene di chi si rappresenta, mondo del lavoro e pensionati, tenendo conto di tutte le componenti della società. Tutelare una parte senza essere contro altri spicchi del Paese ma perseguendo un bene comune.

Essere riformisti richiede intelligenza, capacità critica in primis verso se stessi, libertà di confronto nelle sedi sindacali, un gruppo dirigente che stimoli il pensiero critico costruttivo, che non abbia paura di rinnovarsi. Soprattutto il riformismo richiede il coraggio delle proprie idee, il senso di responsabilità nel promuoverle e difenderle, la consapevolezza di dover decidere e fare delle scelte. Tutti elementi essenziali che gli estremismi giovanili, sindacali, politici non hanno, a loro basta uno slogan, basta un obiettivo immediato e spesso gli basta perseguire un obiettivo sbagliato. C’è ancora tanta strada da fare.

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