SACRO & PROFANO

Finita la luna di miele per Repole, cresce il malcontento in diocesi

In un incontro alcuni preti hanno fatto chiaramente presente all'arcivescovo di non aver gradito l'occupazione di tutti posti chiave da parte dell'inner circle boariniano. E torna in ballo per l'inciampo editoriale. Guerra totale alla Messa tradizionale

La luna di miele del clero diocesano torinese con l’arcivescovo Roberto Repole sembra sia veramente finita e vari episodi lo danno ad intendere. Il progetto della cerchia ristretta “boariniana”, di stampo pseudo riformato, secondo il quale un certo numero di super parroci coordinerà le parrocchie affidate ai laici non è piaciuto affatto e molti adesso sembrano svegliarsi dal torpore. Alcuni preti, guidati da insospettabili capofila, hanno fatto chiaramente presente allo stesso arcivescovo, in una riunione, di non aver gradito in alcun modo l’occupazione di tutti posti chiave della diocesi – cominciando dal rettore del seminario – da parte della solita cricca e pare che, nella concitazione dell’incontro, siano state evocate addirittura le famose «docce in comune». Anche l’invito alle dimissioni rivolte dal vescovo ai parroci prossimi alla pensione è stato accolto dagli interessati con vivo disappunto, oltreché come una mossa suicida.

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Processione della Consolata sottotono anche se con un buon numero di fedeli in maggioranza piuttosto attempati, con poca gente lungo il percorso e le finestre, un tempo illuminate e aperte, chiuse e buie. Pochi preti e pochissime suore, tutti molto tristi e dimessi. In tale grigiore, spiccavano i sacerdoti del Verbo Incarnato con i loro giovani, ragazze e ragazzi, che hanno portato una nota di colore e vivacità. Niente Ave Maria di Lourdes ma canti che nessuno cantava, salvo alla fine quando è partita la Salve Regina tradizionale che tutti hanno cantato a squarcia gola, quasi come una liberazione, compresi i preti in camicione. Timidi applausi all’arcivescovo.

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A Vercelli, l’arcivescovo Marco Arnolfo, ha reintrodotto l’antico rito della vestizione clericale. Nell’ultima giornata della fraternità sacerdotale, infatti, due seminaristi hanno ricevuto veste e cotta nel corso della celebrazione di ammissione dei candidati agli Ordini sacri. Dopo la presentazione, la Messa è stata interrotta per dar loro il tempo di indossare la tonaca in sacrestia, per poi tornare davanti all’arcivescovo e ricevere devotamente la cotta. Una vera sorpresa, si dice vissuta con ilarità da molti presenti, se si pensa che questo rito – emblema un tempo del peggior “clericalismo” della Chiesa «sbagliata», oggi così vivacemente stigmatizzata nei discorsi papali – ha avuto luogo dopo decenni proprio nella diocesi del bergogliano Arnolfo, di cui è risaputa l’insofferenza verso l’abito talare e chi lo indossa. Che sia diventato ostaggio di qualche «indietrista»? O ancora, che stia vivendo una conversione tradizionale, preludio magari, chissà, al ripristino della tonsura? Certo si respira in diocesi un aria – si fa per dire – da fine regime, un regime che vacilla, fatto di strane dinamiche locali ad intra. Motus in fine velocior?

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Pur entrato, come si dice, per il rotto della cuffia, l’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, noto alle cronache per essere fautore dello scioglimento della Nato, è stato eletto parlamentare europeo nelle liste del Pd dichiarando subito che con la dizione proposta sull’aborto nella bozza di conclusioni del G7 «Giorgia Meloni si pone al di fuori della legge italiana». E lo ha detto, ha precisato, «parlando da cattolico», forse dimenticando che sul punto, recentemente ribadito nel documento Dignitas Infinita, si conferma il Magistero di Giovanni Paolo II per cui «nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione diretta, comunque venga attuata, di un essere umano della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita» (DI, n.47). A livello regionale piemontese, i consiglieri cattolici eletti anche loro nelle liste del Pd, e di cui fanno anche parte, mantengono il solito assordante silenzio.

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Dalla Corte di Santa Marta

Chi abbia letto l’edizione di lunedì scorso di Repubblica ha avuto l’impressione di avere fra le mani, invece dell’organo del laicismo militante, una copia dell’Osservatore Romano dei vecchi tempi, tanto era lo sforzo di sostenere le continue e indifendibili – almeno soltanto nello stile – performance papali sulla «frociaggine», locuzione questa che ha dominato durante la variopinta sfilata del Gay Pride. Sul più laico dei giornaloni sono comparsi, in sequenza, una intervista al cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, un’articolessa dell’ex priore di Bose, Enzo Bianchi, che minimizzano la portata delle uscite bergogliane ma, soprattutto, un articolo di supporto a una improbabile operazione messa in atto in Vaticano e cioè quella di dimostrare che esiste una continuità tra Bergoglio e Ratzinger a cui però non crede proprio nessuno. Giovanni Maria Vian, storico ed ex direttore dell’Osservatore Romano ai tempi di Benedetto XVI esamina il recente libro-intervista a Francesco dello spagnolo Javier Martínez-Brocal, corrispondente di Abc e membro dell’Opus Dei dal titolo El sucesor. Mis recuerdos de Benedicto XVI dove si tenta di ridurre le differenze di fondo tra i due papi a mere questioni caratteriali. Vian riprende un incidente su cui ci eravamo in più occasioni soffermati e in cui fu implicato don Roberto Repole in veste di teologo e che fu all’origine della sua ascesa. Un fatto che da solo illumina bene – e smentisce – la favola della continuità fra i due pontefici.

Nel 2018 furono pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana undici libretti sulla «teologia di Bergoglio» (sic) e l’allora prefetto della Comunicazione vaticana, don Dario Viganò (nulla a che vedere con l’omonimo arcivescovo di cui diremo), aveva proposto a Benedetto XVI di un breve testo di commento. Il papa emerito rispondeva declinando l’invito e menzionava, con sorpresa, la presenza fra i «volumetti» di un testo di un suo connazionale, il teologo tedesco Peter Hünermann, che aveva capeggiato iniziative contro di lui e la sua teologia, soprattutto in campo morale. Nella presentazione ai giornalisti, Viganò omise questo fondamentale passaggio ma il vaticanista di lungo corso, Sandro Magister, se ne accorse e fece scoppiare il caso che terminò con le dimissioni del prefetto. Da ricordare sempre che il coordinatore dell’iniziativa editoriale era don Roberto Repole.

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Partecipando a Lisbona alla Gmg il papa ha pronunciato uno dei suoi più accattivanti slogan: todos, todos, todos a significare che nessuno nella Chiesa è estraneo, inutile o superfluo ma tutti, ma proprio tutti, vi sono accolti perché essa non è la comunità dei migliori ma la Madre di tutti. Tutti meno qualcuno. Sono infatti ripartite le persecuzioni nei confronti di quei fedeli, etichettati come tradizionalisti ma che spesso non lo sono affatto ma hanno l’unica colpa di voler partecipare alla Messa secondo il rito del Messale di San Giovanni XXIII del 1962 e che Benedetto XVI aveva liberalizzato. Poiché il motu proprio di Francesco Traditiones Custodes, che pone gravi limiti alla sua celebrazione, è rimasto in gran parte del mondo senza quasi effetto, anzi, in Paesi come gli Stati Uniti e la Francia, le Messe si sono moltiplicate diffondendosi fra i giovani, arriverebbe adesso la «soluzione finale». Lo stesso pontefice avrebbe recentemente detto a un suo interlocutore che la Messa tridentina «deve essere estirpata». Varie sono le avvisaglie. Il biellese monsignor Vittorio Viola, segretario del Dicastero del Culto divino, detto anche “una lacrima sul viso” e legatissimo al liturgista Andrea Grillo, ha scritto all’arcivescovo di Melbourne, monsignor Peter Andrew Comensoli, per imporgli la soppressione dell’unica Messa in rito antico che si celebrava in cattedrale e che era una delle poche volte che vedeva riuniti un gran numero di fedeli sotto le volte dell’immenso tempio, ha poi concesso la dispensa per due chiese parrocchiali ma solo per due anni, trascorsi i quali, il vescovo dovrà relazionare a Roma per «raccontare i passi che sono stati fatti per condurre i fedeli legati alla liturgia precedente verso la celebrazione della liturgia secondo i libri liturgici riformati dal Concilio Vaticano II, e che costituiscono l’espressione unica della lex orandi del rito romano». Devono insomma, come minores habentes, essere rieducati senza tante storie.

A Napoli, il nuovo arcivescovo, monsignor Domenico Battaglia, ha soppresso una delle Messe Vetus Ordo che si celebravano in città. In Francia, il nunzio apostolico, il cuneese monsignor Celestino Migliore, è stato incaricato dal papa e dal più accanito avversario della Messa antica, il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, di ingaggiare guerra aperta al mondo tradizionale francese che, a differenza di quello italiano, è presente e combattivo in ogni diocesi: i vescovi che non lo seguiranno nelle misure vessatorie contro la Messa saranno dimessi. Se l’operazione avrà successo, allorché Parolin diventasse papa, Migliore sarà il suo Segretario di stato. Ma, come si è detto, la notizia che da giorni circola sul web è che il 16 luglio verrà emesso un provvedimento ancora più radicale di Traditiones Custodes il quale, in spregio alle norme, al buon senso e alla misericordia dovrebbe estirpare e sradicare per sempre la Messa di San Pio V. Si agirebbe addirittura, secondo alcuni, modificando il Missale Romanum e permettendo la celebrazione del Vetus Ordo solo ai  preti appartenenti ai cosiddetti istituti Ecclesia Dei (Fraternità S. Pietro, Cristo Re,  ecc.). Le conseguenze di quella che si presenta come una assurda e ingiusta persecuzione saranno molteplici: si infoltiranno le fila dei fedeli della Fraternità di S. Pio X (lefevriani) con i quali, come è noto, il papa ha buoni rapporti nonostante questi stiano per ordinare nuovi vescovi, si esacerberanno ancor di più gli animi e si radicalizzeranno ancor di più le posizioni tra modernisti e tradizionalisti, mentre mai come in questo momento la Chiesa avrebbe bisogno di unità e di pace liturgica, cosa che, ben diversamente da Paolo VI, a Bergoglio pare non interessi e tutto questo mentre continueranno e si diffonderanno, in un panorama di chiese sempre più deserte, gli abusi liturgici di ogni genere e specie – quelli che la nostra rubrichetta documenta spesso – e sui quali monsignor Viola non ha ovviamente nulla da dire. Della salvezza delle anime poi sembra proprio non interessi più a nessuno. Veramente Deus dementat quos perdere vult.

Si tornerà dunque a celebrare nelle case private o, come ai tempi del giovane curato d’Ars durante il Terrore giacobino, nelle stalle e nei fienili? Con la differenza che i preti refrattari di oggi non sono perseguitati dal Comitato di Salute pubblica di Robespierre ma dal vescovo di Roma. Una vittoria di tal fatta nemmeno Ernesto Buonaiuti e i modernisti avrebbero potuto immaginarla. Ma, come ebbe a dire San Pio X, di cui in questi giorni ricorre il settantesimo anniversario della canonizzazione: «Quando avrete modernizzato la Chiesa quelli che erano dentro se ne andranno ma quelli che erano fuori non entreranno».

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L’arcivescovo ed ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò, è stato convocato in Vaticano per essere sottoposto a processo canonico e, vista la pesantezza delle accuse di scisma, molto probabilmente sarà scomunicato. Pochi sanno però che il prelato lombardo, referente vaticano del compianto teologo torinese don Franco Ardusso (1935-2005), suo compagno al Pontificio Collegio Lombardo, era uno dei prelati più progressisti e chi entrava nel suo mirino quasi sempre non aveva scampo. Qualche prete torinese ne sa qualcosa. Anzi, durante il pontificato di San Giovanni Paolo II Viganò costituiva, con Pietro Parolin e Gabriele Caccia, attuale Osservatore della Santa Sede all’Onu, il terzetto che, ispirato dal loro mentore, il progressista cardinale Achille Silvestrini, aveva il compito di depotenziare e sabotare ogni iniziativa papale soprattutto quelle promosse dal cardinale Joseph Ratzinger che ad un certo punto ebbe persino difficoltà a recarsi dal papa e al quale veniva negata ogni proposta di elevazione all’episcopato di coloro che, da lui segnalati, ne condividevano la linea teologica.

Non a caso, lo stesso Segretario di Stato ha fatto questa incredibile dichiarazione: «Mi dispiace tantissimo, io l’ho sempre apprezzato come un lavoratore molto fedele alla Santa Sede, in un certo senso anche di esempio, quando è stato nunzio apostolico ha lavorato molto bene, cosa sia successo non lo so». Forse, visti i rapporti, avrebbe potuto chiederlo direttamente. Si cerca anche, da parte progressista, di operare un parallelismo tra Viganò e monsignor Marcel Lefebvre ma il confronto non regge, sotto nessun profilo. Il prelato francese fu da sempre orientato alla Tradizione, partecipando al Concilio e votando alcuni documenti, tra cui Sacrosantum Concilium ma, soprattutto non mise mai in discussione la legittimità dei papi continuando a celebrare la Messa una cum. Il suo dissenso con Roma – su cui si può essere d’accordo o meno – ebbe sempre ragioni squisitamente teologiche e non nasceva, come per Viganò, da motivazioni di carriera. Entrambi però ebbero l’illusione di una Tradizione senza Chiesa che, inevitabilmente, porta infine allo scisma. Adesso, sarà interessante vedere come reagirà Francesco all’ordinazione di nuovi vescovi della Fraternità che, se avverrà senza il consenso di Roma, comporterà per ordinanti e ordinati la scomunica latae sententiae.

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