Tutti contro l’immunità

Lo scudo che proteggeva i parlamentari fu spazzato via dall'onda di Tangentopoli, abbattuto dai giustizialisti di Mani pulite. Reintrodurlo non significa tutelare la casta ma salvaguardare i legislatori da un antidemocratico uso della giustizia a fini politici

La prima forma di immunità parlamentare risale all'Inghilterra del Medio Evo con la Magna Charta (1215), che conteneva il principio secondo il quale i baroni non potevano essere giudicati se non dai loro pari. In Francia, Montesquieu ne fece un requisito fondamentale nel sistema della tripartizione dei poteri; la Rivoluzione francese tagliò la testa al Re e all’assolutismo, proclamando che nessuno è al di sopra della legge e della sovranità nazionale. Nel contempo riconobbe all’Assemblea una precisa immunità a garanzia delle sue funzioni e prerogative. In Italia l'immunità parlamentare è presente da ben prima dell’Unità. Fu infatti introdotta nello Statuto Albertino, ispirandosi all’art. 44 della Costituzione Belga: «Nessun membro dell’una o dell’altra Camera può essere indagato o perseguito a causa delle opinioni e dei voti espressi durante l’esercizio delle sue funzioni».
 
Nel 1848, la norma venne recepita nella Carta Costituzionale del Regno di Sardegna che, dopo il 1861, divenne la Costituzione del Regno d’Italia. Art.51: «I Senatori e i Deputati non sono sindacabili in ragione delle opinioni da loro emesse e dei voti dati alle Camere». Da allora l'immunità parlamentare è divenuta fulcro di numerosi dibattiti e protagonista di diversi tragici spettacoli. Ricordiamone alcuni. Nel 1893, durante il governo Giolitti, lo scandalo della Banca Romana guidata dal Senatore del Regno Bernardo Tanlongo, il quale invocò l’immunità parlamentare per eludere la galera. Nel 1913 Alceste De Ambris, sindacalista socialista, esule e condannato in contumacia per le sue idee politiche, eletto in Parlamento tornò in patria grazie all’immunità. Sotto il regime fascista l'immunità fu usata a piacimento personale del Duce, che la calpestò con violenza: nel 1925 Giuseppe Di Vittorio venne arrestato, nel novembre 1926 venne mandato in carcere Gramsci.
 
Subito dopo la guerra, nel 1947 l’immunità parlamentare viene reintrodotta come norma costituzionale. A volerla furono i padri costituenti come tra essi De Gasperi, Terracini, La Pira, Togliatti, Moro, Fanfani, De Nicola che riconobbero nell’immunità parlamentare una garanzia per la Democrazia. De Gasperi, Togliatti e Nenni erano consapevoli che l’immunità, se mal utilizzata, poteva diventare un’arma a doppio taglio, ma slegare il potere politico da quello giudiziario era una priorità necessaria a tutela della nostra democrazia. Nel Dicembre 1947 con 453 voti favorevoli e 62 contrari viene approvato l'Art. 68: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale, a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza».
 
La norma porta in seno una grande responsabilità: salvaguardare la politica e il suo libero esercizio, impedire persecuzioni o ricatti. Da qui inizia il cammino dell'immunità nell'Italia Repubblicana, applicata con diversi pesi e misure. Ricordiamo nel 1953, Francesco Moranino, vittima di una grave montatura giudiziaria per un tragico episodio di guerra e costretto a rifugiarsi a Praga, venne eletto deputato e grazie all'immunità parlamentare poté ritornare in Italia; nel 1968 Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, dopo essere stati eletti nelle file del Psi, grazie all'immunità evitarono il carcere a seguito della querela e della denuncia per la loro famosa inchiesta sul Sifar; nel 1984, scoppiò uno dei casi giudiziari più tragici della storia italiana degli ultimi decenni e specchio palese della malagiustizia, venne arrestato Enzo Tortora con la falsa accusa di spaccio. Tortora con clamore rinunciò alla sua immunità di eurodeputato e si rimise a giudizio della magistratura. Nel 1993 la «grande coalizione» postcomunisti, rifondazionisti, verdi, rete, repubblicani, Lega, Msi, radicali ( la stessa coalizione che nell'aprile non era riuscita a ottenere da Montecitorio l'autorizzazione richiesta dalla Procura di Milano per procedere contro Bettino Craxi) ebbe la sua rivincita. Con 525 sì, 5 no e un astenuto, alla Camera, 224 sì, 7 no e nessun astenuto al Senato l'immunità parlamentare venne abrogata. In tal modo, si poteva processare un rappresentante del popolo senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza.
 
Morì così l'immunità parlamentare, pilastro garantista della Democrazia e del regolare operato dei poteri dello stato, uccisa dalla mala politica e dal giustizialismo. Oggi l’esito del tormentato dibattito sulle riforme istituzionali non può non ripercuotersi sulla configurazione delle prerogative giudiziarie dei parlamentari, traballanti fra un assetto costituzionale incerto ed un’irrisolta e vergognosa tensione tra potere politico e potere giudiziario. L'immunità parlamentare non è un privilegio ma una garanzia finalizzata ad un corretto ed equilibrato rapporto tra i diversi poteri dello Stato. Reintrodurla non significa tutelare una casta di privilegiati ma salvaguardare i legislatori, nell'interesse dell'intera Nazione, da un folle ed antidemocratico utilizzo della giustizia a fini politici. L’immunità serve a tutelare due realtà: la libertà di espressione nel parlamento e la separazione dei poteri, perché nei paesi civili i giudici non possono giudicare chi governa. Historia magistra vitae.

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