Non è giustizia se è "sommaria"

Il presidente del Consiglio Avv. Giuseppe Conte nel partecipare al funerale di Willy, il ragazzo ventiduenne barbaramente ed immotivatamente ucciso a calci e pugni da un branco di ragazzi palestrati per il solo motivo di aver tentato di sedare una rissa, ha detto: “dalla giustizia mi aspetto una condanna severa”. A prim’orecchio si può non prestare molta attenzione alla esortazione del presidente del Consiglio verso la magistratura al fine di comminare una pena “severa” a chi è giudicato colpevole dell’abominevole crimine. Tutti noi, di fronte ad un crimine perpetuato verso un ragazzo indifeso come Willy, maturiamo un sentimento di forte indignazione e rabbia tanto da considerare giusto esercitare una “giustizia sommaria”. Ma se a chiedere una “condanna severa” è il capo del governo di uno Stato di diritto, allora si genera un sentimento avvilente ed angosciante, soprattutto perché Giuseppe Conte è una persona educata e non avvezza ad usare toni aggressivi, insomma non è come altri nostrani leader di partito che utilizzano le tragedie, magari anche vere, per “agitare” il popolo a proprio vantaggio

 Le parole dette pubblicamente da Conte, persona che riveste un ruolo istituzionale di grandissima rilevanza e che, ultimo ma non ultimo, è un giurista con un ottimo curriculum, adombrano sul nostro Belpaese il sospetto di non aver maturato una coscienza giuridica adeguata ad un Paese compiutamente democratico. Sarebbe stato più coerente che il nostro presidente del Consiglio dicesse che sicuramente la nostra magistratura, dopo aver accertato le responsabilità con professionalità, metodo ed analisi, arriverà a comminare la “giusta” pena.

Ma se il buongiorno si vede dal mattino vediamo com’era il mattino del codice penale italiano. Il primo codice penale dell'Italia unita fu il codice penale sabaudo del 1839 del Regno di Sardegna adottato nel resto della penisola nel 1859 durante la realizzazione dell’Unità d’Italia. Fino al 1889, però, vissero due codici penali perché la Toscana continuò ad usare il suo. Il 30 giugno 1889, il ministro di grazia e giustizia Giuseppe Zanardelli unificò la normativa che entrò in vigore il 1° gennaio 1890. Durante il governo Mussolini, grazie alla legge delega 4 dicembre 1925 n. 2260, il governo poté emendare il codice penale che ebbe esecuzione a cominciare dal 1931: la nuova legislazione venne emanata con regio decreto il 19 ottobre 1930 riportando in calce le firme del Re d’Italia Vittorio Emanuele III, del capo del Governo Benito Mussolini, e del ministro di grazia e giustizia Alfredo Rocco. A partire dal secondo dopoguerra numerose commissioni di studio hanno redatto relazioni per l’approvazione di un nuovo codice penale e più parti politiche hanno ampiamente criticato il così detto codice Rocco; il mondo accademico e gli operatori del diritto hanno dichiarato non procrastinabile la necessità di un codice penale nuovo, moderno e aderente ai principi costituzionali.

Dopo la caduta del fascismo, la dottrina penalistica (Pannain, Delogu, Leone) ritenne improponibile il ripristino dell'ottocentesco Codice Zanardelli, ma ritenne altresì sufficiente l’impianto tecnico del Codice Rocco osteggiando così una riforma ex novo del codice. Nei decenni successivi sono intervenute numerose e importanti riforme ma parziali e scollegate tra loro, in successione disordinata e senza un disegno unitario, portando ad una perdita di compattezza e coerenza logica il nostro odierno codice penale.

Il 17 settembre 2020 è stata arrestata Dana Lauriola, trentottenne portavoce No Tav, e condannata a due anni di reclusione per episodi che risalgono al 3 marzo 2012 quando alcune centinaia di manifestanti invasero un casello autostradale e permisero agli automobilisti, per circa 40 minuti, di passare gratis oltre la barra. Non ci furono interventi di polizia o scontri, e, dopo questa breve azione dimostrativa, i manifestanti si ritirarono dalla sede autostradale. Per questi 40 minuti di azione dimostrativa, Dana Lauriola dovrà scontare due anni di carcere con una condanna attribuibile alla “pericolosità sociale”, reato rispolverato pari pari dal cosiddetto codice Rocco: un giudizio sulla persona più che sui suoi comportamenti! Inoltre il tribunale di Torino ha respinto la richiesta di misure alternative presentata dal suo avvocato.

In merito alla perdita di coerenza logica, e a titolo di esempio, prendiamo il recentissimo caso dell’“incidente” stradale avvenuto nel napoletano: Michele Antonio Gaglione, 25 anni, volendo fermare la sorella Maria Paola, 22 anni, l’ha tamponato volutamente con la sua moto facendola uscire di strada con lo scooter. Maria Paola, cadendo, è finita su un tubo per l’irrigazione che le ha tranciato la gola facendola morire sul colpo, mentre Ciro, il suo compagno anch’egli sullo scooter, è rimasto illeso. Il 25enne Michele Antonio Gaglione è stato messo in carcere per omicidio preterintenzionale.

In Italia il codice di procedura penale prevede i seguenti reati di omicidio: 1) omicidio doloso: (secondo l’intenzione) è commesso volontariamente, ossia quando il soggetto ha intenzione di uccidere la vittima e lo fa (la pena base irrogata dal giudice non può essere inferiore a 21 anni di reclusione); 2) omicidio colposo: (contro l’intenzione) il soggetto causa la morte di una persona per negligenza, imperizia, imprudenza oppure per inosservanza di leggi o regolamenti, ordini o discipline. Tipico caso di omicidio colposo è quello che deriva da incidenti stradali: il soggetto non vuole uccidere delle persone, ma, ad esempio, passando col rosso o mantenendo una velocità troppo elevata, ne cagiona la morte (la pena base va da sei mesi a cinque anni di reclusione); 3) omicidio preterintenzionale: (figura di reato prevista praticamente solo in Italia) è commesso «oltre l’intenzione» a seguito di reati di percosse o di lesioni. Il soggetto vuole picchiare, percuotere o comunque provocare lesioni alla vittima senza volerla uccidere ma, a causa delle ferite, il soggetto muore (la pena base va da 10 a 18 anni di reclusione).

Affinché la fattispecie possa dirsi preterintenzionale è necessario volere l’accadimento di un evento e causare involontariamente un evento più grave (morte). L’interpretazione determina problemi di coerenza costituzionale. Il delitto in questione non costituisce un’ipotesi di dolo misto a colpa dato che sarebbe irragionevole punire il soggetto perché, nell’atto di percuotere o ledere, ha agito con negligenza, imprudenza o imperizia causando colposamente la morte. Parimenti, dato che l’evento morte deve rientrare nella sfera di rappresentazione del colpevole, non può costituire esempio di responsabilità oggettiva (responsabilità nella quale il soggetto è chiamato a rispondere di un illecito senza che il fatto sia stato con dolo o con colpa; situazione che trova conferma nella corrente filosofica del giusnaturalismo in cui è necessaria l’esistenza di un preciso nesso psichico tra fatto illecito e comportamento dell’individuo al fine di attribuire al soggetto le conseguenze giuridiche).

Nel caso di Napoli l’unico fatto volontario è il tamponamento causato da Michele Antonio allo scooter della sorella, tamponamento che, nella stragrande maggioranza dei casi, produrrebbe una caduta senza alcuna conseguenza tanto è vero che Ciro è rimasto illeso. La morte di Maria Paola è dovuta alla presenza casuale del tubo di irrigazione proprio dove è caduta. La Procura della Repubblica ha incriminato Michele Antonio per omicidio preterintenzionale ma chi è il vero omicida preterintenzionale: Michele Antonio che l’ha tamponata, chi ha installato il tubo d’irrigazione, o la fatalità?

print_icon