LA SACRA RUOTA

Fca, la vera garanzia è agli azionisti

Sindacati e politica si dividono sull'intervento statale per il finanziamento da 6,3 miliardi alla multinazionale. Fondi che sosterranno gli investimenti in Italia. Così i soldi in cassaforte serviranno per pagare il maxi dividendo prima della fusione con Psa

I sindacati aprono al prestito da 6,3 miliardi di euro che Fca sta trattando con Intesa Sanpaolo, attraverso una garanzia di Sace secondo quanto previsto dal Decreto Liquidità, per sostenere l’automotive italiano, che da solo vale il 6,2% del Pil italiano e dà occupazione a circa il 7% di tutta la manifattura. “Sarebbe illogico non dare il via libera in un Paese che spende 3 miliardi per il carrozzone Alitalia e che ha elargito fondi, con risultati a dir poco deludenti, alla franco-indiana ArcelorMittal”, sostiene il segretario generale Fismic Roberto Di Maulo, ricordando che il 40% della componentistica italiana è destinato alla multinazionale, oltre 53mila dipendenti in Italia, suddivisi in 16 stabilimenti produttivi e 26 poli di ricerca e sviluppo. Numeri importanti, cui vanno aggiunti i 220mila lavoratori della filiera, diretti e indiretti, e i 120mila addetti a distribuzione, vendita e assistenza dei veicoli. Del resto, nel 2019 il 90% della produzione domestica di autoveicoli, ben 825.425 su 915.000, è stata Fca, che nel Piano industriale 2018-2022 prevede progetti in Italia per 5 miliardi di euro, nonché il lancio di 12 modelli elettrificati in tre anni, produzione di batterie inclusa. Sulla stessa linea alcune organizzazioni confederali, a partire dal sempre ottimo Marco Bentivogli della Fim-Cisl.

Eppure il sostegno da parte dello Stato alla multinazionale con sede legale ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra continua a far discutere e mentre è scontata la posizione critica di buona parte della sinistra – dal vicesegretario del Pd Andrea Orlando a Leu (che ha presentato in Parlamento un emendamento in cui chiede di escludere Fca dai potenziali beneficiari del decreto) – la questione divide anche l’area liberale, culturalmente refrattaria agli aiuti di Stato.

È vero che Fca non chiede aiuti, conferimenti a fondo perduto o sottoscrizioni di capitale, ma un prestito da restituire in tre anni con interessi, così come è altrettanto certo che l’operazione sarebbe in capo a Fca Italia, branca nazionale della holding (altrimenti non potrebbe accedere alla garanzia) che versa alle casse dell’erario circa un miliardo e mezzo di tasse (che con Exor e Ferrari diventano 4 miliardi. In tale prospettiva, a fronte dell’assenza di provvedimenti a favore del comparto dell’auto nel cosiddetto decreto “Rilancio”, si tratterebbe di un sostegno alla filiera dell’automotive, ai suoi 350mila occupati. E ai molti fornitori che, va detto, in molti attendono il saldo delle loro fatture.

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Tutto giusto. Eppure vi sono aspetti non (ancora) del tutto chiari. Fca dispone, a quanto risulta dai conti, di liquidità sufficiente per sostenere il business italiano, eppure opta per richiedere un prestito garantito dallo Stato. Scelta legittima, ma che suscita altri interrogativi, in particolare vista la prospettata fusione con Psa. Non è che si rischia di gonfiare il portafoglio degli azionisti? Il sospetto viene, giacché scorrendo le condizioni dell’operazione è previsto proprio un maxi dividendo straordinario, peraltro non tassato. Con i soldi in cassaforte si remunereranno gli azionisti e con quelli presi a prestito con garanzia statale si farà fronte agli investimenti industriali. Se è così, indovinate chi è che fa l’affare? L'ipotesi che siano proprio gli azionisti a guadagnarci parrebbe confermata anche dal fatto che oggi, dopo la conferma della richiesta del prestito con garanzia statale, il titolo di Fca a Piazza Affari è cresciuto dell’8,19% a 7,79 euro.

Infine, last but not least, c’è la vicenda della domiciliazione del gruppo Fca. Senza moralismi d’accatto, si tratta di una decisione legittima, per carità, non spetta alle aziende dirimere il dumping fiscale. È però singolare, diciamo, come ricorda l’ex ministro Carlo Calenda che nessuna casa automobilistica europea tranne Renault-Nissan ha sede fuori dal proprio paese: Volkswagen a Wolfsbur, Daimler (Mercedes-Benz) a Stoccarda, Bmw a Monaco, Groupe Psa a Parigi. Fa perlomeno riflettere.