PICCOLA PATRIA

Povero Piemonte, secondo a Trichiana

Nella squadra del governo Draghi la nostra regione esce con le ossa rotte. Unica a difendere i colori domestici è la grillina Dadone. Segno inequivocabile della perdita di centralità politica. Ci si consolerà con i sottosegretari? - di Stefano Ambrosini

A scorrere la compagine del nuovo governo il Piemonte esce davvero con le ossa rotte. Un solo ministro, Fabiana Dadone, a fronte dei nove della Lombardia e dei quattro del Veneto. Fanalino di coda del Nord indubbiamente (al ligure Andrea Orlando va infatti un dicastero di peso), ma indietro persino alla Basilicata, che “piazza”, confermandoli, due ministri come Lamorgese e Speranza.

Ben due dei nuovi ministri, Daniele Franco al Mef e Federico D’Incà ai Rapporti con il Parlamento, provengono da Trichiana: comune autonomo della provincia di Belluno fino a due anni fa, poi confluito nel nuovo comune di Borgo Valbelluna, conta meno di seimila anime. Alzi la mano chi lo aveva sentito nominare prima. Trichiana, ovvio, non Franco, unanimemente apprezzato direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Ivass.

Sono lontani i tempi in cui la nostra Regione (uso ancora la lettera maiuscola per carità di patria) esprimeva politici di primissimo piano: tre presidenti della repubblica (Einaudi, Saragat e Scalfaro), presidenti del Consiglio (Pella negli anni cinquanta, in contemporanea con Einaudi, più di recente Goria), presidenti della Camera (ancora Scalfaro, Violante), numerosi ministri (Sarti, Goria, Costa, Nicolazzi, Fassino). E sicuramente sto dimenticando qualcuno.

Neppure dieci anni fa era al vituperato Mario Monti che dovevamo la presenza nel suo governo, troppo spesso ingenerosamente valutato, dell’alessandrino Balduzzi (all’epoca mio collega all’Università del Piemonte Orientale) e della canavesana Fornero, oltre a quella del torinese d’adozione Profumo, chiamato poi a sostituire Remmert alla presidenza della Compagnia di San Paolo (ove alcuni di noi avevano da poco completato la seconda consiliatura).

Com’è chiaro non si tratta del luogo di provenienza in sé, ma del peso che un territorio è in grado di esprimere sul piano politico, giacché, a tacer d’altro, non è irrilevante, per i parlamentari di una regione e, più in generale, per la sua “classe dirigente”, poter contare sulla presenza di un conterraneo in questo o quel dicastero. Non si pensi alla ricerca di favoritismi di sorta (honi soit qui mal y pense!), bensì semplicemente alla maggior facilità di interlocuzione e alla comune conoscenza di problemi e situazioni locali da rappresentare in modo rapido ed efficace in sede nazionale.

Per non parlare di Torino. È difficile, a prescindere dall’appartenenza o dalle simpatie politiche di ciascuno, non provare un pizzico di nostalgia per i tempi in cui Fassino era tra i sindaci più influenti d’Italia (e non a caso presiedeva l’Anci) e Chiamparino guidava la Conferenza delle Regioni. Ciò accadeva solo qualche anno fa, a ben vedere, ma sembra quasi un’era geologica. Il che solleva il dubbio circa la possibile, ancorché malaugurata, irreversibilità della perdita di centralità politica – e finanche di effettiva rilevanza – del  Piemonte e del suo capoluogo, che non può essere spiegata soltanto con l’emigrazione di Fiat verso altri lidi.

Speriamo ovviamente di eccedere in pessimismo. Ed ora, in attesa dei nuovi viceministri e sottosegretari, non resta che confidare, quanto meno, nella conferma di Castelli e Giorgis nei due importanti ministeri in cui hanno operato, riscuotendo, soprattutto il secondo, ampi consensi. Ricordandoci però che quando, da piccoli, arrivavamo ultimi in una gara o in un gioco, lo chiamavano premio di consolazione.

print_icon