LA SACRA RUOTA

Stellantis, les jeux sont faits.
Il vertice parla solo francese

Nei settori strategici gli uomini chiave provengono da Psa, soltanto un decimo è italiano. La filosofia "spartana" di Tavares e dei nuovi top manager potrebbe avere pesanti ripercussioni sugli stabilimenti di Torino e l'indotto. E l'allarme di Appendino arriva in ritardo

Les jeux sont faitsStellantis parla e decide in francese. Dei 120 manager acquisti e supply chain, ovvero coloro che stabiliranno la spesa per i componenti, solo un decimo è italiano mentre i francesi sono il doppio. La stessa proporzione, spesso accentuata, si profila anche in altri settori strategici della società nata da quello che è stato presentato come un matrimonio, ma in realtà come attestato dalle carte è stata una vendita di Fca a favore di Psa.

“Il fatto che molti uomini chiave siano uomini Psa non è affatto un problema trascurabile, né da liquidare come una sorta di offesa francese nei confronti dell’Italia, ma apre a scenari assai più complessi e per alcuni versi potenzialmente preoccupanti”, osserva Claudio Chiarle, per quarant’anni sindacalista dei metalmeccanici della Fim-Cisl torinese e tra i più attenti conoscitori e studiosi del settore automotive, visto ovviamente ma con occhio distaccato dal fronte del lavoro. Lavoro che la crisi accentuata dalla pandemia ha messo e mette a durissima prova, non senza i dubbi e le preoccupazioni che la francesizzazione di Stellantis alimenta in Italia e in quel Piemonte dove Torino è stata e da tempo non è più la one company town dell’auto.

C’è un dato che fa spavento e che dice tutto, sulla crisi dell’automotive a Torino: 2006 in provincia furono prodotte 218mila auto, nel 2019 appena 21mila, in quindici anni un crollo del 90%, secondo i numeri dei sindacati. L’osservatorio della Fiom-Cgil ha calcolato che dal 2008 al 2020, nel Torinese, sono stati persi 32mila posti di lavoro su 119mila: un calo del 27% nel quale il settore automotive è stato triste protagonista. Nello stabilimento di Mirafiori si avanti con la cassa integrazione da ormai 14 anni. Se c’era una volta la Fabbrica Italiana Automobili Torino e oggi la Fiat si chiama Stellantis e parla il francese, il capoluogo sabaudo è sempre più alla periferia del gruppo. A metà aprile è stato annunciato un mese di cassa integrazione alla Maserati di Grugliasco, mentre vanno incontro a più di due mesi di cassa gli addetti della Comau, storica azienda torinese, anch’essa controllata da Stellantis, specializzata in robotica e automazione industriale. Proprio su questo gioiello della robotica si sono addensate fitte nubi, da circa un anno si parla di un imminente spin-off con annessa quotazione in Borsa, ma c’è anche chi continua a parlare di una probabile cessione.

“Se la politica di Psa è quella di spingere la razionalizzazione al massimo, una logica che molti definiscono spartana, non so quanto si andrà lontano – riflette Chiarle –. Dobbiamo stare molto attenti perché se una certa filosofia la si applica, poniamo per esempio agli acquisti nell’indotto, è chiaro che si metterà in discussione la linea di Fca con possibili pesanti ricadute. L’idea che hanno i francesi potrebbe vanificare quanto tracciato e fatto con Sergio Marchionne”. Preoccupazioni condivise da tutti i sindacati. Recentemente Marco Parisi delegato Fiom in Comau ha manifestato timori concreti: “Negli ultimi anni ci sono stati molti prepensionamenti che non sono stati compensati da nuove assunzioni: ogni 20 tempi indeterminati che escono ne entrano 3 interinali”. Non è la prima volta che Comau fa ricorso alla cassa integrazione: era già successo negli anni passati per far fronte a brevi periodi di contrazione delle commesse.

“Questa volta però è diverso perché sta succedendo qualcosa ma non sappiamo”. Che ci si trovi “in un momento molto delicato”, lo sottolinea il segretario nazionale Fim Ferdinando Uliano il quale ricorda come ““il gruppo sta analizzando il rapporto con le forniture e c’è un tema di inferiorità del nostro indotto rispetto a quello francese, in termini non qualitativi ma dimensionali”. Insomma, il rischio di vedere ulteriormente e in maniera assi concreta confermato quell’acquisto spacciato per matrimonio cresce di giorno in giorno. 

La stessa narrazione sull’auto elettrica come panacea, ad un’analisi attenta ma neppure così complicata mostra una realtà e una prospettiva diverse: “I modelli elettrici, soprattutto sull’alta gamma, escono dalle fabbriche non per essere venduti, ma per prendere i soldi dell’Unione Europea”, spiega Chiarle. “Forse meglio guardare con più attenzioni agli ibridi che non pongono in maniera così pesante e impegnativa per il futuro il problema della produzione dell’energia necessaria per una mobilità totalmente elettrica. Il dibattito è ancor monco rispetto a questo”. 

Nel più ampio dibattito sul futuro di Torino rispetto al nuovo gruppo è, invece, arrivata la voce della sindaca. “Torino merita di essere tutelata sia dal punto di vista dell’occupazione che dal punto di vista del suo innegabile ruolo di punto di riferimento mondiale del settore dell’auto – ha sostenuto recentemente Chiara Appendino, chiedendo al presidente del consiglio Mario Draghi  di “prevedere l’utilizzo di parte delle risorse del Recovery Plan per permettere a Torino di continuare il suo percorso”. Una richiesta che se non ha ancora avuto risposta da Palazzo Chigi, fa dire a chi del settore automotive si è occupato per oltre quarant’anni come Chiarle che la sindaca “a dieci metri dal precipizio politico sta cercando tutte le strade per farsi notare in positivo. La verità è che il suo appello è in enorme ritardo. Avrebbe dovuto pensare cinque fa anni ad occuparsi di Fca e di una politica integrata, invece di fare quelle demenziali piste ciclabili”.

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