FIANCO DESTR

Soldati in parlamento, scienziati al governo. Regole d'ingaggio e piani della Meloni

Con il vento in poppa dei sondaggi la capa di Fratelli d'Italia studia da premier. "Dobbiamo essere rassicuranti" dice ai suoi guardando però fuori dal partito per comporre la squadra di ministri. I ruoli speculari di Crosetto e di Lollobrigida

In casa Fratelli d’Italia cresce l’attesa per il voto del 25 settembre prossimo. I sondaggi danno il partito di Giorgia Meloni in testa, col vento in poppa verso la vittoria e il pensiero è già rivolto a Palazzo Chigi. E, contestualmente, alla composizione della rappresentanza parlamentare che, calcolatrice alla mano, nonostante il taglio imposto vedrà quantomeno triplicati l’attuale numero di deputati e senatori. La parola d’ordine è “serietà”: nella scelta dei candidati (nessuno spazio a nostalgici del Ventennio e a personaggi pittoreschi del vecchio circo Barnum della destra), nella propaganda elettorale che deve essere sobria e misurata (“evitare di fare promesse che non si è in grado di mantenere”), nelle relazioni con i vari livelli istituzionali. E proprio su quest’ultimo punto l’attenzione della Capa è massima, quasi ossessiva riferiscono fonti di via della Scrofa. “Dobbiamo essere rassicuranti”, è l’ordine impartito a tutta la gerarchia del partito: niente colpi di testa, smargiassate, dichiarazioni scomposte. La posta in gioco è troppo importante e lei sa che l’occasione di governare il Paese potrebbe essere unica e irripetibile. Vanno vinti pregiudizi, superate resistenze (interne e internazionali), evitati trappoloni e inciampi. “Voglio soldati in parlamento e scienziati al governo” avrebbe sintetizzato così con il suo cerchio “maggico” le disposizioni inderogabili.

L’obiettivo va coltivato con prudenza e determinazione, al punto che la leader di FdI, proprio in questi giorni di calura, mentre il suo compare di coalizione ha vestito nuovamente i panni di Capitan Fracassa, ha iniziato una ricognizione ad ampio raggio nei meandri dei poteri forti, tra i boiardi di Stato, in quel deep state che è stato spesso origine e causa delle fortune e delle disgrazie di tanti politici. Un lavoro paziente e sotterraneo che però pare stia iniziando a portare i primi risultati se è vero, come riferiscono rumors dei Palazzi romani, la Meloni abbia in testa qualche primo nome del futuribile governo.

Stando alle indiscrezioni di stampa, il premier Mario Draghi, col quale ha stretto un rapporto molto stretto e cordiale benché all’opposizione, le avrebbe consigliato la figura di Fabio Panetta, già direttore generale di Bankitalia e unico membro italiano del board della Bce, per il ministero dell’Economia o come futuro governatore di via Nazionale. Con questo manager dalle poche ma incisive parole Meloni si è intrattenuta a lungo nel giardino di Casina di Macchia Madama lo scorso 26 luglio, alla festa di compleanno di Gianfranco Rotondi. Altro nome suggerito dall’attuale inquilino di Palazzo Chigi sarebbe quello di Roberto Cingolani, probabilmente per il ruolo che ricopre tuttora, ministro della Transizione Ecologica. Ma in questa girandola di incontri discreti, in cui si racconta di una Meloni più propensa ad ascoltare che a parlare, più desiderosa di porre domande che fornire risposte ai molti interrogativi dei suoi interlocutori, spunta il fior fiore dei boiardi e di manager, pubblici e privati, banchieri ed economisti: dal vicepresidente di Morgan Stanley, il torinese Domenico Siniscalco (nei gabinetti Berlusconi prima direttore del Tesoro e poi ministro dell’Economia), al ceo di Intesa Sanpaolo Carlo Messina (che descrivono molto gratificato dai corteggiamenti ma fermamente intenzionato a non mollare le chiavi di Ca’ de Sass). Un altro torinese, il sociologo fustigatore della (sua) sinistra, Luca Ricolfi è molto apprezzato soprattutto per le “operazioni verità” promosse dalla sua Fondazione Hume, e, si dice, sia papabile per un ministero.

Non è difficile scorgere dietro queste prime mosse la sagoma del gigante di Marene, quel Guido Crosetto che pur avendolo fondato si tiene a debita distanza (almeno pubblicamente) dalle rogne di partito fungendo volentieri da ufficiale di collegamento con il milieu economico, produttivo e finanziario. Un ruolo speculare svolto dal fido Lollo, al secolo Francesco Lollobrigida, capogruppo uscente a Montecitorio, che di Meloni è cognato, invece tutto proiettato all’interno: sua è la penultima parola sulle candidature (l’ultima, ça va sans dire, è quella di Giorgia), a lui tocca il compito di Caronte che traghetta le anime perse degli altri partiti verso i lidi meloniani.

Sulle strategie, le bocche restano cucite, ma i più audaci, a taccuini chiusi, dicono che si tratta solo di voci. Poi, sottovoce, aggiungono: “Ci sono alcuni supermanager di aziende partecipate o docenti che godono della stima della Meloni, ma da qui a dire che saranno ministri ce ne passa...”. I meloniani, ufficialmente, smentiscono tale scenario anche per non irritare i leghisti che non hanno visto di buon occhio queste indiscrezioni e che sognano di riprendersi il Viminale, magari rimettendoci lo stesso Matteo Salvini che lo aveva guidato nel governo gialloverde.

Insomma, Meloni punta in alto e non vuole trovarsi costretta a raffazzonare una squadra di governo infarcita di mezze calzette di partito o riciclati dell’ultima ora. Il motivo è semplice e nello stesso tempo arduo da realizzare. Occorre dare autorevolezza a un esecutivo che agli occhi di Bruxelles può essere visto come sovranista ed euroscettico. Ma non solo. La Meloni vorrebbe guidare un governo di centrodestra, formato in buona parte da “scienziati” autorevoli che, non avendo in tasca alcuna tessera di partito, non rispondano a nessun altro che al presidente del Consiglio (che nella sua testa dovrà essere lei, ovviamente). Così come sul fronte parlamentare vuole imporre regole d’ingaggio stringenti, in modo da poter contare su una compagine di eletti “fedelissimi” in grado di resistere alle lusinghe e capaci di fronteggiare le difficoltà (che ci saranno, eccome): niente scappati di casa tipo grillini ma anche porte sbarrate a potenziali voltagabbana. Ci sono poi ragioni anche di natura squisitamente numerica. Nonostante i sondaggi siano più che lusinghieri, considerato che nelle ultime legislature le maggioranze, soprattutto in Senato, sono sempre state piuttosto fragili, è meglio prendere le giuste precauzioni. Ecco, quindi, che ai parlamentari che assumeranno ruoli di governo (ministri o sottosegretari) sarà chiesto di dimettersi per lasciare il proprio scranno libero per altri eletti. Un modo per evitare che la maggioranza vada sotto nelle votazioni più importanti.

Che siano solo congetture o ipotesi concrete su cui la Meloni sta lavorando non è ancora chiaro, ma certo è che sta già ragionando da presidente del Consiglio in pectore.

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