La Repubblica dell'astensione

In questi giorni tutti i riflettori mediatici sono puntati su Giorgia Meloni. All’interno dei talk show, così come in ogni edizione dei T nazionali, vengono elencati i Ministri insieme ai loro dicasteri (alcuni dalle bizzarre denominazioni che ricordano il film di Corrado Guzzanti “Fascisti su Marte”), mentre nutrite schiere di troupe televisive hanno ripreso il rito del passaggio della campanellina, del Consiglio dei Ministri, dalle mani di Draghi a quelle della leader di Fratelli d’Italia.

Quasi nessuno si è soffermato su un dato che rappresenta la vera, soprattutto preoccupante, novità emersa dalle “Politiche 2022”: il dato inerente l’astensione dal voto. Solamente il 63,9% degli italiani aventi diritto si è recato alle urne. In sintesi, guardando il medesimo dato in negativo, non ha votato il 36% degli elettori: sono loro i veri vincitori di questa tornata. Il fenomeno è noto da tempo negli Stati Uniti, Paese in cui il Presidente è investito da meno del 20% degli americani, ma le nostre forze politiche si ostinano ugualmente a non conteggiare, sia nella sconfitta che nella vittoria, l’importante percentuale dei non votanti.

Rivedendo i calcoli, inserendo anche gli astensionisti nei dati inerenti ai risultati delle elezioni, il Centrodestra-Destra ha vinto grazie al 44% dei consensi espressi dal 63,9% dei votanti effettivi. Un successo consistente che non raccoglie però la maggioranza della nazione, ma che ha garantito alla Meloni di far eleggere un gran numero di deputati e senatori. Il dato reale, ossia in termini assoluti, indica come solo il 28% del corpo elettorale si consideri rappresentato dall’attuale governo (lo stesso 26% acquisito dal partito della premier andrebbe quindi ridimensionato): una minoranza che magicamente si è trasformata in ampia maggioranza nei due rami parlamentari.

Il sistema democratico si traduce quindi in una minoranza che regge le sorti dello Stato, e al contempo in un consistente numero di persone che non hanno rappresentanza parlamentare a causa degli sbarramenti imposti dalla legge elettorale. Le numerose riforme costituzionali varate nei decenni sono state efficaci nel distruggere qualsiasi parvenza di partecipazione popolare; così valide da realizzare infine lo scopo che i loro proponenti si erano prefissati: far imboccare alla Democrazia la strada che conduce alla trasformazione in Oligarchia.

Una rapida panoramica sulle istituzioni italiane permette di compilare la cartella clinica di una malata in agonia: la Repubblica nata all’indomani della caduta di Mussolini. I piccoli comuni, privi di personale e affidati alla buona volontà dei consiglieri, sono in uno stato di paralisi perenne. Quelli più grandi sono governati da sindaci resi invulnerabili dai premi di maggioranza attribuiti, dalla legge, alle coalizioni vittoriose, mentre le loro circoscrizioni (nel caso specifico, quelle torinesi) gestiscono ogni provvedimento in giunta, lasciando alla discussione in consiglio i pochi atti residuali (mozioni e interpellanze).

In un tempo oramai lontano, la Sinistra chiedeva a gran voce: “Tutto il potere ai consigli”. Oggi, al contrario, i politici eredi di Berlinguer amano affidare qualsiasi decisione nelle mani degli esecutivi. Molte assemblee sono rinnovate tramite elezioni di secondo grado, e i loro seggi vengono occupati da consiglieri scelti esclusivamente da colleghi appartenenti ad altri organi istituzionali (come accade nelle Città Metropolitane e nelle Comunità Montane piemontesi).

Infine, uno sguardo ai consigli regionali e alle Camere. I primi, ridotti nel numero di scanni e costituiti anche da importanti quote di nominati, grazie ai listini che accompagnano il presidente vittorioso, sono percepiti da chi dovrebbero rappresentare come realtà aliene, al pari di un mondo distante anni luce dalla vita dei cittadini. Il Parlamento invece, dimezzato dall’ultima riforma, è rinnovato tramite un sistema che prevede liste bloccate, su cui nulla può la volontà dell’elettore, il quale si limita a mettere una croce su elenchi di candidati vagliati (nella maggior parte dei casi) dalle segreterie dei partiti. Chi vota ha uno spazio di scelta limitatissimo, e anche la minoranza rappresenta una porzione di italiani sempre più contenuta, rispetto a quella emersa dalle percentuali sentenziate dalle urne.

La situazione politica si fa davvero confusa, e la nebbia che la domina disorienta pure i leader partitici del Paese: Letta in primis. Il segretario del PD infatti, nei giorni scorsi, ha dichiarato con una punta di orgoglio che toccherà a lui portare avanti l’agenda Draghi. Un’affermazione davvero surreale, priva di qualsiasi ragion d’essere: soltanto il 28% sul 63,9% dei votanti (una nettissima minoranza) ha espresso consenso riguardo le strategie adottate dal governo uscente (tradotte nei programmi dei democratici e dell’autobattezzato “Terzo polo”), ed inoltre l’attuale Presidente del Consiglio ha annunciato, durante la richiesta di fiducia rivolta al Parlamento, l’intenzione di voler raccogliere lei stessa l’eredità del premier emerito (compresa la misteriosa fornitura di armi a Kiev, di cui nulla è dato sapere).

Siamo giunti alla fine di un percorso iniziato tanti anni or sono. La delegittimazione del settore Pubblico si è dimostrata uno strumento perfetto per fornire l’alibi alle privatizzazioni selvagge, e successivamente la delegittimazione delle istituzioni democratiche ha condotto all’azzeramento della rappresentanza e a governi nominati, oppure espressione di nette minoranze. Una riforma “oscura” portata avanti, e voluta con forza, soprattutto da chi oggi dai banchi del Pd grida: “opposizione, opposizione, opposizione!”.

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