SACRO & PROFANO

Melassa e cordoglio di facciata, Ratzinger e i figli del relativismo

Chi ha frequentato i corsi della facoltà teologica torinese sa bene come il suo pensiero fosse in tutti modi silenziato se non tacitamente avversato. Le "omissioni" dell'arcivescovo Repole e la folta presenza di fedeli e preti piemontesi alle esequie

Appena dopo la morte di Benedetto XVI, da S. Marta è arrivato l’ordine che «il Vaticano continua ad andare avanti», come se non fosse successo nulla. Nemmeno le campane sono risuonate a morto e le bandiere non sono state esposte a mezz’asta in segno di lutto, cosa avvenuta invece in Italia. La traslazione alla basilica di S. Pietro del suo corpo è stata poi vergognosa: trasportato come un ladro nell’oscurità, su di un pulmino, senza seguito – non diciamo del papa – ma almeno del vicario per lo stato della Città del Vaticano o dei canonici. Benedetto è stato adagiato ed esposto senza il pallio e il pastorale – che pure gli spettavano in quanto vescovo di Roma emerito – e con al dito nessuno dei tre anelli da lui posseduti, ma con uno di ferro, le scarpe nere tenute unite da un elastico.

Il giorno dei funerali è stato in Vaticano un giorno lavorativo come un altro. Ciò che però da S. Marta non si aspettavano – avendo fatto divulgare dai giornalisti amici per anni l’immagine di un uomo inviso al popolo – è stato l’accorrere di tanta folla, di quella gente che non avrà l’odore delle pecore ma che ha il sensus fidei e ha percepito immediatamente il profumo della santità, del bello e del vero. Famiglie e giovani sono sfilati fin da mattino di fronte al feretro, incuranti dei commenti ideologizzati dei Melloni, dei Mancuso e dei Grillo che hanno riconosciuto la grandezza di Benedetto solo nel fatto delle sue dimissioni o che, come Enzo Bianchi, con astuzia umana, apprezza di lui soltanto le omelie, tralasciando il suo alto magistero fatto di tre encicliche, centinaia di interventi e di una biblioteca di libri e saggi.

Tra i presenti a Roma non sono mancati fedeli e preti di Torino. Perché non sono pochi quelli che devono a Ratzinger/Benedetto la vocazione e che sanno bene cosa sia il ministero sacerdotale e per questo vengono tanto criticati dai “martiri sessantottini”. Riprendendo Silere non possum, la scena è la seguente: il prete sessantottino seduto con la pancia e una polo smanicata e il prete giovane magari in talare. Il primo critica l’altro – a Torino è la consuetudine – dicendogli che guarda troppo alla forma e ci fa tornare indietro. Alle Messe celebrate dal primo non va più nessuno, a quelle del secondo la gente accorre. Dai loro frutti li riconoscerete, Mt 7,16.

La Messa esequiale in piazza S. Pietro è stata liquidata in un’ora e un quarto, meno di quanto avviene per l’ultimo parroco. L’omelia del papa è stata – anche a detta di commentatori ostili a Benedetto – «generica e inconsistente», probabilmente scaricata da internet, e mentre i fedeli chiedevano a gran voce “Santo Subito”, egli ha cominciato a battere i piedi per andarsene. Il maestro delle cerimonie, monsignor Diego Ravelli, è poi riuscito a convincerlo a salutare la bara ma non ad accompagnare Benedetto alla tumulazione. Ai fedeli presenti è stata poi platealmente negata la comunione sulla lingua.

Quello che ha fatto più imbestialire i “modernisti” è stato il testamento di Benedetto XVI, reso pubblico nei giorni scorsi, con quel suo appello finale a rimanere saldi nella fede, a non farsi confondere e a demitizzare gli indiscutibili totem della teologia progressista dominante: «Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze Bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher), la generazione esistenzialista (Bultmann, ecc), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo». Inaccettabile.

Grande cordoglio di facciata dei vescovi piemontesi e parata di ipocrisia su Benedetto XVI. Nessuno di quelli che lo criticavano in vita – gli emeriti in particolare – ha avuto il coraggio di rendere pubbliche le pure legittime riserve sul papa emerito. Ci è stato riferito che soltanto qualche mese addietro un arcivescovo metropolita piemontese – non quello di Torino – disse che con Benedetto il papato aveva toccato il suo punto più basso per poi risalire con il successore, aggiungendo infine che, lui regnando, egli non sarebbe mai diventato vescovo. Per fortuna, venne poi ripescato da papa Francesco con grande gioia – si fa ovviamente per dire – della diocesi del proto-vescovo piemontese. Così non ha stupito nessuno se nella primaziale del Piemonte il suffragio al papa emerito sia stato all’ultimo inserito – forse su indicazione della virgo potens? – in una delle Messe dell’Epifania. Anche a Pinerolo il vescovo Derio Olivero, ancora vulnerato dallo sguardo irato di Bergoglio in risposta a una sua domanda durante l’assemblea della Cei della primavera scorsa, ha preferito manifestare un eloquente silenzio, magari – in quanto condannato all’ecumenismo – su indicazione della componente valdese del suo consiglio pastorale. Sul settimanale diocesano, è solo comparso il sobrio annuncio – come avviene per qualsiasi altro fedele – “Benedetto XVI è tornato alla Casa del Padre”.

Chi ha frequentato i corsi della facoltà teologica torinese sa bene come il pensiero di Ratzinger/Benedetto XVI fosse in tutti modi silenziato se non tacitamente avversato. Oggi che alcuni dei docenti sono arrivati ai vertici della diocesi la cautela è d’obbligo, anche se l’opinione è rimasta la stessa. Dalla Fossano desertificata dal modernismo insegnato nello Studio teologico, soltanto don Duilio Albarello – e gliene va dato atto – ha avuto il coraggio di dire chiaramente che «invocare l’attribuzione a Benedetto del titolo di Dottore della Chiesa mi sembra appartenga a quel processo di mitizzazione (“santo subito”), cui sono inclusi con troppa sbrigatività i papi del XX secolo. Perché allora non Von Balthasar, se non vogliamo proprio osare la candidatura dell’“eretico” Karl Rahner?». Per il teologo di Mondovì, «in questi giorni abbiamo assistito ancora una volta allo spettacolo triste di coloro che – cattolici e non cattolici – sono sempre indietro di un papa, nonché di uno o due Concili». Il noto gesuita padre Paolo Gamberini, dal canto suo, ritiene che l’aver chiuso in faccia le porte della Sapienza a Benedetto sia stata invece una decisione giusta.

Nell’omelia pronunciata dall’arcivescovo di Torino Roberto Repole alla Consolata nella Messa di suffragio ha con ragione affermato che: «Purtroppo noi siamo troppo figli di quel relativismo che lui (Benedetto XVI) ha giustamente condannato e ci ha insegnato a veder come una minaccia». Nell’intervista rilasciata al settimanale diocesano sul contributo teologico del papa emerito, il teologo Repole riesce a compiere – grazie alle ancillari domande dell’intervistatore – una stringata e comunque efficace sintesi degli aspetti più significativi della teologia ratzingeriana, riletta sotto il profilo storico ed ecclesiologico. L’impressione, tuttavia, è quella di una assimilazione del suo pensiero a quello di «colossi del calibro di Karl Raher e di Hans Kung» in una troppo indistinta melassa e di una neutralizzazione delle profonde diversità e divergenza di impostazione.

L’idea della centralità di Dio in Ratzinger contrasta infatti in modo radicale con la teologia progressista di ieri e di oggi secondo la quale Dio deve essere assente dal mondo. Karl Rahner, il teologo del «trascendente moderno» che – secondo Cornelio Fabro – coincide col «principio di immanenza», ritiene che Dio si autocomunica soltanto nell’orizzonte della nostra esperienza e nella profanità del mondo per cui Dio è il Silenzio – come ha ripetuto lo stesso papa Francesco nell’omelia dell’Epifania – e si manifesta come domanda. Pertanto, la Chiesa deve sciogliersi nel mondo. Ernst Bloch, che tanto ha influenzato la teologia protestante e cattolica contemporanea, sosteneva che solo un ateo può essere un buon cristiano, perché sulla Croce Cristo si è svuotato di sé stesso nel senso di mostrarsi uomo. La profanità del mondo indica la sua maturità ed è il luogo teologico nel quale il sacro è assente. La teologia di Johann Baptist Metz ha poi permesso alla teologia rahneriana di assumere forma concreta e di collegarsi con una serie di correnti di pensiero caratterizzate tutte dal modernismo. Un processo teologico che comporta nei suoi esiti un mondo senza Dio e che contrasta con la ripetuta affermazione di Benedetto XVI circa la centralità di Dio nel mondo. Lui stesso ricordò che mentre il titolo del suo libro è Introduzione al cristianesimo, quello di Ranher è significativamente intitolato Introduzione al concetto di cristianesimo. La teologia contemporanea ha fatto propria l’istanza della modernità: «non voler più essere a immagine di Dio, ma di noi stessi; conferire a noi stessi il potere sul mondo, non rispettare il potere di Dio e non aspettarsi niente da Lui» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture).

L’arcivescovo omette poi di argomentare su di un aspetto di non poco conto e che è primariamente teologico: il rapporto di Ratzinger con la liturgia dove non si può dire che gli ammonimenti di Benedetto XVI  sulla cura liturgica abbiano sortito un qualche rilevante effetto in diocesi, non soltanto per una pervicace ostilità nei confronti del rito antico e per la persistenza di un certo «gusto per lo squallido» degli ultimi anni, ma anche per una sorta di impermeabilità nei confronti del «ben celebrare» da parte di più di un parroco. Forse – ma ne dubitiamo – tratteranno dell’argomento l’inclito don Paolo Tomatis o la virgo singularis Morena Baldacci.

Massimo Faggioli, storico ultra progressista della Scuola di Bologna e docente universitario negli Usa, ha dato un giudizio che, fra quelli emessi dai tanti avversari di papa Benedetto, ci sembra il più condivisibile: «Joseph Ratzinger è stato un brillante teologo e intellettuale pubblico, ma anche un chierico sul trono di Pietro col coraggio e il gusto dell’impopolarità nell’era del papato iper-mediatizzato. Rimarrà uno dei papi più pubblicati e letti nella storia della Chiesa, e certamente uno dei più discussi e studiati. Tra coloro che sono consapevoli del proprio tempo, pochi saranno indifferenti o distaccati rispetto all’eredità che ci lascia». Sì, Benedetto XVI – «intellettuale europeo al mille per cento che non ha mai esitato a confrontarsi con i grandi temi della filosofia e della teologia» – continuerà a interrogare e a inquietare gli spiriti pensanti con quella chiarezza che nulla ha a che vedere con le marmellate sentimental-patetiche-moralistiche della teologia della debolezza dove tutto è indistinto. Come ha ben scritto Massimo Cacciari, Giovanni Paolo II e Benedetto sconfitti – secondo le logiche umane – dalle potenze della secolarizzazione, «sono stati cattolici senza cedimento, e questa è stata la loro forza». Quella forza che oggi manca e di cui la Chiesa avrebbe bisogno per continuare a rendere presente Cristo Salvatore.