Terzo polo al bivio

Dopo il voto laziale e lombardo anche il cosiddetto Terzo polo è già arrivato al bivio politico decisivo. Si tratta cioè di decidere, e anche rapidamente, la strada politica che si vuole intraprendere nel futuro. Nel frattempo, una cosa è persin troppo ovvia da ricordare. E cioè, due piccoli partiti personali non possono, da soli, risollevare e rilanciare un “centro” politico, riformista, innovativo e dinamico nel nostro paese. Non si tratta di ricostruire un luogo politico immobile e trasformistico ma, semmai, di riscoprire quelle caratteristiche e quelle specificità che storicamente hanno segnato il cammino e l’evoluzione della politica italiana e che non sono affatto archiviate o superate dagli eventi anche nella stagione contemporanea.

Ma, per tornare al Terzo polo, malgrado lo sforzo dei due capi partito di Azione e Italia Viva, è pressoché impossibile, nonché molto difficile, costruire da soli una prospettiva politica di medio/lungo termine. Dopo un esordio elettorale discreto alle recenti elezioni politiche, anche se non entusiasmante, è arrivata già la prima doccia fredda. Ed è avvenuta proprio in due regioni importanti sia per motivi territoriali e sia per ragioni politiche. Ed è sufficientemente noto che di fronte ad un risultato del genere è necessaria una inversione di rotta. Ovvero, innescare da un lato una netta e percepita discontinuità politica che sia in grado di rilanciare un progetto politico che conserva, malgrado tutto, una forte attualità e, dall’altro, archiviare definitivamente il modello di “partito personale” che ha caratterizzato sino ad oggi l’esperienza di Italia Viva e di Azione. Modello che, del resto, ha caratterizzato la nomina centralistica dei deputati e dei senatori alle elezioni del settembre scorso e degli stessi organismi di partito a livello periferico. Ma è di tutta evidenza che questo metodo non può essere lo strumento capace di coinvolgere mondi vitali, realtà sociali, culture politiche, associazioni culturali e il pianeta vario e articolato degli amministratori locali. Soprattutto quelle realtà civiche che sono largamente riconducibili alla cultura e alla prassi centrista e lontane dagli “opposti estremismi”. E questo modello risponde ad un solo nome: Margherita. Intendiamoci, e come ovvio, non si tratta di rifare quella esperienza politica che si è esaurita nel lontano 2006. Ma il modello di riferimento, il profilo di partito e il metodo statutario non possono che essere quelli se si vuole rilanciare realmente un partito che deve declinare una politica importante e forse anche decisiva per l’avvenire democratico e riformista del nostro paese.

Un modello, quello della Margherita, che si poggia su tre pilastri decisivi: dev’essere un partito culturalmente “plurale”; dev’essere un partito autenticamente democratico al suo interno dove non c’è traccia di “partito personale” o di “partito del capo” e, infine, deve costruire un progetto politico riformista, innovativo e di governo attraverso l’apporto di tutte le culture politiche che si riconoscono nel partito. E il tutto avviene attraverso quel “patto federativo” che ha costituito il segreto del successo politico ed elettorale della Margherita in quel periodo storico.

Ecco perché la discontinuità politica, culturale e forse anche organizzativa che deve intervenire nel corpo vivo del Terzo polo non può che essere profonda ed immediata. Se si pensa, invece, che il tutto può procedere come oggi e si deve andare avanti con l’attuale impostazione e che è sufficiente annunciare quotidianamente che il partito unico ci sarà ma non prima dell’estate del 2024, il rischio che si corre è uno solo: che si arriva all’appuntamento elettorale delle prossime regionali, comunali ed europee del tutto depotenziati e smarriti. Forse è bene pensarci prima che sia troppo tardi per evitare che la carovana deragli anzi tempo.

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