Pd, un partito in franchising

Se la mia squadra vince la finale della coppa campioni, anche se il rivale è la rappresentativa di Topolinia, sarà difficile trattenere la gioia del momento. Questa è una datità psicologica che sarebbe utile considerare per andare oltre all’effervescenza di questi giorni dopo la vittoria di Elly Schlein alle primarie; al di là della gioia dei sostenitori e del fermento dai commentatori di area e non solo. A leggere oltre la speranza del momento emergono alcuni dati: quello di una decisione fatta dal corpo degli iscritti di un partito apertamente sconfessata da chi quel partito dovrebbe rappresentare, i suoi gli elettori che sono fuori dal partito; quello di un crollo dei numeri di chi è dentro e chi è fuori quel partito. Basta un esempio per dare il senso di ciò.

Guardo alla provincia di Alessandria dove vivo. Si è passati dai 9.418 elettori delle primarie di Renzi a 5.772 votanti domenica: -39%. A fianco di questo, il numero stesso degli iscritti anno dopo anno è sceso, riducendosi sempre di più ad un gruppo ristretto di addetti ai lavori o di appassionati. Questi dati si ripetono per lo Stivale. Parlano di una crisi locale, prima ancora che nazionale; un declino che si racconta più con il crescente senso di distanza più che con scissioni ed abbandoni illustri.

Cosa sta succedendo? Giuseppe Berta raccontando del Pd alla sua nascita parlava di partito in franchising, per spiegare la polarizzazione della dimensione locale e di quella nazionale: entità distaccate l’una dall’altra, non mutualmente spiegabili, ma legati dall’uso di uno stesso simbolo. La definizione nasceva dal cercare di capire perché si fosse voluto accelerare così bruscamente per arrivare alla creazione del nuovo partito; perché si fosse accettato di creare un partito-non partito che abbandonava la dimensione associativa-comunitaria per abbracciare quella del comitato elettorale di ideale ispirazione americana.

Passati gli anni, dopo qualche sfortunato tentativo di riattivazione della realtà locale e di creazione di più solidi rapporti tra i vari livelli di organizzazione il quadro non sembra essersi strutturalmente modificato. Si è, però, scarnificata la struttura. Guardando a domenica, non si può nascondere questa verità, anche perché questo è fondamentale per cercare di costruire un’alternativa allo stato delle cose; una nuova realtà. In questi quindici anni di storia, più di una volta, di fronte all’emorragia di partecipazione si sono moltiplicati gli appelli ad “aprirsi”, ad “aprire la porta”. La porta si è aperta, però, più per far uscire che per far entrare ed oggi è necessario domandarsi non solo cosa divida quella porta, cosa ci sia dentro e cosa ci sia fuori, ma anche come aprirla, da che verso e come.

Le prossime settimane, superata la routinaria luna di miele con il nuovo segretario, la farà la prova pratica, a partire dai processi di democrazia interna nel partito a livello locale, ma soprattutto dalla proposta di stampo sociale e culturale che il nuovo (?) Pd saprà fare, cercando di spostare l’ideale utilità del partito da essere strumento utile solo per delle votazioni, a realtà capace di costruire attività, valori condivisi, avanzamento culturale senza degenerare nella versione di noialtri della traiettoria woke. O così, dunque, o si procederà ulteriormente sulla via dei comitati elettorali, dei personalismi (più o meno) carismatici, degli uomini soli al comando di una comunità sempre più disillusa e lontano dalla sua democrazia.

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