Riformismo e liberalismo

In merito al dibattito sul riformismo tendente a legittimare il nuovo corso del Pd, l’intervento di Carlo Galli, che ha il merito di entrare finalmente nel “cosa” prima che nel “chi” o “con chi”, pur nella sua efficace sintesi, difetta, a nostro avviso, di alcuni elementi essenziali nella definizione del quadro delle istanze che hanno contribuito all’affermazione del riformismo come prassi politica e forma di pensiero. Giustamente Galli pone le radici del riformismo nell’epoca che segna l’ingresso nella modernità: l’umanesimo, la riscoperta della matematica e delle scienze empiriche che condussero il pensiero fuori dal neoplatonismo per portarlo verso lo sviluppo di una nuova forma di conoscenza fondata sui principi della ricerca posti da Galileo Galilei. Lo sviluppo della tecnica e il commercio mercantile espandono la base economica della società attraverso nuovi modelli di produzione e diversi modelli sociali. Come sostiene Galli, gli equilibri economici e sociali diventano instabili “e quindi la sua politica è sempre all’opera per assestare, cioè per riformare, la società”. Si cita la Riforma luterana e le pratiche riformiste che “hanno l’obiettivo di costruire sistemi politici e sociali sempre più adeguati ai presupposti chiave della modernità: libertà e uguaglianza dei cittadini, razionalità e trasparenza della vita pubblica, eliminazione di oppressioni e autoritarismi”.

Modernità, appunto, che vuol dire libertà intellettuale e sviluppo della scienza e della tecnica che applicati ai processi di produzione portano a quello che comunemente chiamiamo progresso. Quindi sviluppo economico e progresso come presupposto dei diritti e della libertà, un quadro che sembra essere in contraddizione con il modello ottocentesco che mette in una posizione contraddittoria il citoyen (con i suoi diritti) e il bourgeois (l’imprenditore o il capitalista, o più in generale l’homo oeconomicus che persegue i propri fini con l’uso della razionalità), su cui si fonda una certa critica para marxista e movimentista, che considera lo sviluppo come sinonimo di capitalismo e il capitalismo come sinonimo di oppressione, o, addirittura di corruzione e degrado della natura umana, come vuole la vulgata neo roussoiana del populismo di sinistra e considera lo sviluppo e la libertà di impresa come frutto avvelenato dell’egoismo e dell’individualismo sfrenato sostenuti, oggi, dal cosiddetto neoliberismo.

Un guazzabuglio di contraddizioni quindi che dovrebbero costituire il presupposto del modello identitaria del nuovo Pd. Infatti, questa visione parziale, se non contraddittoria, del riformismo manca di un aspetto fondamentale che riguarda la storia della modernità, quell’aspetto che, dall’umanesimo, ha portato alla nascita dell’Illuminismo. La scienza, la tecnica e la modernità con l’espansione economica e sviluppo del benessere attraverso la diffusione di migliori standard che riguardano innanzitutto la salute delle persone e la loro formazione con il progresso morale e spirituale, hanno nel loro progetto di base, nel loro codice genetico, l’emancipazione umana e l’affermazione delle capacità dell’individuo inteso come persona umana e lo sviluppo di sempre maggiori e più specialistiche competenze da applicare allo sviluppo della tecnica e della società, sempre più complessa e sempre più competitiva. Il problema della sinistra oggi è quello di coniugare queste due istanze della modernità: diritti di cittadinanza e sviluppo. Sviluppo che vuol dire sempre maggiore complessità, maggiore competenza e specializzazione, sempre maggiore responsabilità e quindi differenza in termini di merito e come in quelli gerarchici.

La crisi della sinistra e l’affermarsi del cosiddetto liberismo nascono proprio dal venir meno dell’equilibrio che queste istanze avevano trovato grazie alla prassi politica riformista durante il secondo dopoguerra fino a all’inizio degli anni Settanta. Mentre, nello stesso periodo le istanze egualitarie del modello a socialismo reale hanno condotto invece fallimento di questo medesimo programma, fallimento che è arrivato sino all’impostore dello Stato socialista del 1989. Ma che cosa vuol dire uguaglianza nel contesto della modernità? Il socialismo e il marxismo hanno fallito la risposta. Al contrario, il riferimento all’art. 3 della nostra Costituzione, che noi indica la via verso il socialismo ma è un testo in cui traspare la forza della cultura riformista, rimane fondamentale anche in un modello che vuole coniugare lo sviluppo economico con le libertà e i diritti. In un modello che potremmo definire del neoliberalismo sociale l’eguaglianza rimane un concetto astratto che se non posto nella sua giusta dimensione di principio morale può diventare la chiave di quel conflitto tra libertà e sviluppo tra emancipazione ed espansione delle opportunità. Sarebbe rischioso oggi, per la sinistra, contrapporre le esigenze dell’eguaglianza a quelle dello sviluppo e del progresso economico, poiché in tal modo si crea una contrapposizione tra le istanze dello sviluppo della scienza e della tecnica, che fioriscono soltanto in società avanzate dal punto di vista economico e culturale e le istanze di libertà e di emancipazione umana.

Nella società dello sviluppo della scienza, della tecnica del miglioramento continuo delle condizioni di vita, della sempre maggiore competenza e specializzazione, bisogna parlare sempre più di “differenza” per garantire libertà, diritti e maggiori opportunità per tutti. Il diritto deve essere quello di garantire ad ogni individuo la propria differenza, la differenza nelle scelte di vita come la differenza di sviluppo delle proprie capacità. Infatti, le differenze, come sosteneva John Rawls, sono la base di quel progresso che consente il miglioramento delle condizioni di vita, quelle differenze che vanno a beneficio di tutti perché vanno a beneficio del progresso della società e del benessere di tutti. Quindi, per essere riformisti, bisogna parlare di equità e di promozione delle capacità dell’individuo. Merito ed eguaglianza stanno sicuramente in una posizione di antinomia, e la sinistra corbyniana ne ha fatto un elemento di critica e di promozione di una politica conflittuale. Non è così se parliamo di merito ed equità perché in questo caso troviamo che l’anello di congiunzione delle due istanze che, in una certa tradizione appaiono contrapposte, si trova proprio nei principi espressi nell’art 3 della nostra Costituzione laddove si invita il legislatore ad occuparsi di rimuovere i fattori che ostacolano l’esercizio dei pieni diritti di cittadinanza.

Questa è la base di un programma di liberalismo sociale che persegue il miglioramento della società e delle condizioni di vita delle persone attraverso lo sviluppo scientifico, il progresso della tecnica, l’espansione dei diritti e quindi delle libertà e dell’emancipazione, tra cui la libertà di intraprendere senza la quale non ci sarebbero stati gli Steve Job, premi Nobel e grandi artisti. Una forma di liberalismo distante da cosiddetto liberismo con cui si cerca di etichettare le esperienze recenti della sinistra riformista, dal blearismo, clintonismo fino al cosiddetto renzismo. Per il riformismo, come potrebbe anche Galli riconoscere viste le sue premesse, compito dello Stato non è quindi di schiacciare tutti sotto il coperchio dell’uguaglianza, ma di promuovere il miglioramento della società, e quindi l’affermazione dei diritti sociali e di cittadinanza di ogni persona, attraverso la promozione della “differenza”, quella differenza per la quale è nato l’Umanesimo, l’Illuminismo e quel riformismo che ne rappresenta la dimensione politica. In conclusione, possiamo dire che non può esistere programma riformista che si fonda esclusivamente sul principio di eguaglianza, poiché il riformismo che non considera il valore della persona umana e la sua tendenza all’emancipazione e alla realizzazione delle capacità non può essere considerato riformismo ma egualitarismo.

Il prof. Aldo Schiavone, nel suo ultimo intervento parla di un nuovo parametro di uguaglianza. Un parametro Nuovo che possa superare i limiti con cui lo abbiamo conosciuto ad oggi. “Dobbiamo pensare a un’eguaglianza che possa coesistere con la valorizzazione delle diversità individuali, fondata sul rapporto fra impersonale umano e beni comuni di tutta la specie: la salute, l’ambiente, il patrimonio genetico, l’informazione, la democrazia, l’intreccio culturale e sociale dei generi.” Schiavone parla di diversità ma evita, come pure Galli, di evocare il nomen, lo scoglio su cui è naufragato il progetto di giustizia del socialismo: la libertà. Il parametro egualitario lo abbiamo già visto all’opera nei cosiddetti paesi del Socialismo reale e i suoi effetti non sono stati soltanto quelli di bloccare e inibire lo sviluppo sociale e, purtroppo , come vediamo oggi, anche morale; ma anche di creare nuove e più gravi e profonde forme di ineguaglianze: quelle forme che hanno permesso di trasformare l’élite burocratica del sistema sovietico (quella fatta da coloro che sono “più uguali degli altri”, secondo Orwel) nella attuale plutocrazia su cui si fonda il potere dittatoriale di Putin.

Il riformismo, nella società globalizzata e multipolare, non può essere un ritorno alle vecchie ideologie egualitarie; mentre, come ormai acclarato, il modello liberista presenta costi sociali in termini di sperequazioni e ingiustizie moralmente non accettabili oltre al fatto che, a lungo andare, diventano un limite per lo sviluppo stesso perché, in sostanza, non può sussistere libertà laddove non c’è più responsabilità, e responsabilità vuol dire futuro, risorse vuol dire porsi il problema dell’“altro” da me e da miei interessi egoistici. Si tratta di cercare un Nuovo Parametro di Eguaglianza che consenta di governare le spinte del progresso senza rinunciare ai vantaggi e all’affermazione dei diritti sociali e quelli di cittadinanza, provando a quadrare il cerchio tra eguaglianza e libertà. Il riformismo o è liberale, in quanto afferma i valori della modernità, oppure non è riformismo perché non basta una pratica istituzionale a dirsi riformisti, le riforme in tal senso le hanno fatte anche i totalitarismi. Riforme dello stato e della società realizzate in nome di un Noi, che sia nazione o altro, che rappresentava un criterio, anche questo egualitario, verso cui parametrare gli “altri”, i diversi; un riformismo che intervenne, già da Bismark che se si vuole è il padre del sovranismo, anche in molti campi sociali realizzando una certa perequazione di risorse e affermando anche fondamentali diritti sociali. Ma tutti questi “riformismi”, nel porsi il problema del governo della modernità, quella modernità fondata sulla differenza e non sull’uguaglianza, hanno operato per sopprimere sempre il nucleo stesso della modernità: la libertà, o meglio le libertà, da quella di pensiero e opinione fino a quella della libera iniziativa economica. Per questo quell’eguaglianza di cui parla Aldo Schiavone, quel nuovo parametro che deve coesistere con la valorizzazione delle diversità individuali non può esistere se non in un qualche parametro di equità sociale che passi per il sostegno della libertà e dell’emancipazione degli individui e quindi attraverso un programma di liberalismo a cui si potrebbe aggiungere la connotazione di “sociale” in quanto teso a realizzare sempre più maggiore equità senza comprimere, o peggio reprimere, le libertà individuali, ma promovendole come detta l’art. 3 della nostra Costituzione.

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