GLORIE NOSTRANE

L'infinita spola tra Letta e Renzi, così Borghi è finito in Italia viva

Lo statista di Vogogna lascia il Pd e (non) spiega il perché. Con l'ex premier ricorda i bei tempi passati e sorvola su certi tweet al fiele. Ora Matteo da Rignano potrà fare il gruppo in Senato anche senza Calenda, ma non vuole essere lui a staccare la spina

“In politica contano i silenzi tanto quanto le parole” dice Enrico Borghi nella prima conferenza stampa da senatore di Italia viva. Ed è con un profluvio di parole che il parlamentare piemontese svicola l’unica domanda sottesa o esplicita sul suo trasferimento dal Pd alla corte dei renziani: perché? E perché in questo momento? Lui svaria nei suoi ragionamenti dall’Ucraina alla sicurezza internazionale – quanto gli piace giocare a Risiko – ma come si sia ritrovato nel partito dell’ex premier a sei mesi dalle elezioni politiche non lo dice. Eppure in questi anni i due se ne sono dette, o meglio Borghi ne ha dette a Renzi: “Matteo Renzi è l’IO. Pierluigi Bersani il Noi. Per questo voterò Bersani” affermava nel 2012, undici anni fa, alla vigilia del congresso del Pd. Ed era solo l'inizio.

Di fronte ai giornalisti che affollano la sala dedicata ai caduti di Nassirya a Palazzo Madama i due ricordano i primi passi mossi insieme, prima nel Partito popolare poi nella Margherita. Cosa succede di certi amori, in fondo, si sa e sì che quello tra Renzi e Borghi ne ha fatti di giri immensi prima di ritornare. Borghi, 55 anni dal Verbano Cusio Ossola, è l'unico che ha avuto l’abilità di essere lettiano e renziano in un partito, il Pd, in cui Enrico Letta e Renzi non sono mai stati amici. Quando l’allora premier venne congedato con l’ormai celebre “Stai sereno”, lo statista di Vogogna – sparuto centro ai piedi della Val d’Ossola di cui è stato a più riprese sindaco – non perse tempo a salire sul carro del neo segretario in ascesa (“Renzi tiene il Pd al centro della scena e rilancia nell’ennesima partita con la sinistra Pd. Una chiara prova di leadership” cinguettava nel 2015). Ma appena dalla Francia tornò in auge il suo primo mentore lui si fece trovare pronto al suo fianco, con Marco Meloni e i pochi che gli erano rimasti fedeli durante l’“esilio parigino”. E appena diventato segretario Letta lo premia con un posto nella sua squadra per occuparsi di Sicurezza. Fosse vissuto duemila anni fa sarebbe stato con Cesare e pure con Bruto: “Tu quoque Enrico”.

È stato tra i pochi parlamentari di Base Riformista (gli ex rottamatori rimasti nel Pd) a essere ricandidato nell’era Letta, mentre cadevano le teste dei vecchi generali renziani, da Luca Lotti ad Andrea Marcucci, vittime di quella lettera scarlatta (una “R”) che portavano incisa sul loro passato politico. Nei giorni caldi dell’ultima campagna elettorale, dopo aver ottenuto un posto blindato da capolista al Senato, Borghi non risparmiò attacchi a Renzi, appena estromesso dal centrosinistra e in apparenza alla deriva: “Sogna di essere il nuovo Ghino di Tacco, che lucrava sui viandanti da Radicofani. Si è scordato di aver costruito lui l’autostrada che ha deviato tutto il traffico altrove. La solitudine odierna è la conseguenza dei suoi errori”. Era il 6 agosto 2022, di lì a pochi giorni Carlo Calenda avrebbe abbandonato il Pd per allearsi proprio con Renzi e a soffrire di solitudine sarebbe stato Letta, a cui rimasero Luigi Di Maio, Emma Bonino e Nicola Fratoianni.

Ora l’ultima giravolta, a meno di un anno dalla sua elezione in Parlamento. Certo sono arrivati anche allo Spiffero certi sfoghi di Borghi che con alcuni interlocutori ha rivelato di aver sentito discorsi “da Leoncavallo” con l’elezione di Elly Schlein alla segreteria. Ma pur comprendendo il travaglio politico e ideale di Borghi restano i dubbi sul tempismo di una scelta che ha colto di sorpresa i compagni di ieri e quello di oggi. Scontate le dichiarazioni stizzite di chi ha lasciato, così come quelle di giubilo di chi lo accoglie nella sua “nuova casa”. Parla di “mutazione genetica” del Pd dopo l’elezione di Schlein, stigmatizza la svolta “massimalista” del nuovo partito, dimenticando che fino a poche settimane fa era lui stesso che brigava per fondare una nuova corrente in grado di puntellare la neo segretaria, aggirando Stefano Bonaccini: l’iniziativa era stata presa assieme a Meloni, si erano autodefiniti neo ulivisti. Progetto abortito per la decisione della segretaria di trattare direttamente con lo sfidante sconfitto.

Tra le poche certezze c’è il fatto che ora Italia viva ha i numeri per costituire un gruppo al Senato anche senza Azione potendo contare su sei elementi, ma Renzi ha subito chiarito che non è sua intenzione, che lui con Calenda non rompe e anzi continua a parlare di Terzo polo. Non sarà lui a sparare al suo ex ministro, ma sul tavolo c’è la pistola fumante. C’è chi ipotizza per Borghi una candidatura alle europee, chi un ruolo nel partito; per ora Renzi butta la palla in tribuna: “Lui deve puntare a fare il ministro”. Ma di quale governo?

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