GRANA PADANA

Federalismo e autonomia, la Lega (ri)parte dalla Carta di Chivasso

Molinari sceglie la città-simbolo per il congresso che lo confermerà alla guida del partito in Piemonte. La lunga marcia verso le regionali e il probabile spostamento a destra di Salvini. Circa 1.300 i militanti e 500 gli eletti. I temi "storici" del Carroccio per un ritorno al futuro

L’aver scelto, da parte di Riccardo MolinariChivasso come luogo dove celebrare domenica 25 giugno il congresso regionale della Lega racchiude un chiaro messaggio e un altrettanto definita indicazione di indirizzo politico. Segnali ancor più rilevanti alla luce del ruolo e della prospettiva del partito dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi e con ciò che essa comporterà negli equilibri e riposizionamenti all’interno del centrodestra e pure entro i confini dello stesso partito di Matteo Salvini.

È alla Carta di Chivasso, la storica Dichiarazione delle popolazioni alpine del 1943, e alla sua visione fortemente autonomista e alla prospettiva seppure allora in seguito non poco utopica di uno Stato federale a sua volta inserito un una federazione europea, che il commissario uscente e unico candidato alla sua successione affida la sua linea programmatica per il prossimo mandato. Partirà, probabilmente, proprio da quell’idea anticipatrice della forza leghista delle origini e per molti anni a venire il discorso che pronuncerà Molinari. Un appuntamento che non riserva particolri preoccupazioni, al contrario invece di quanto accade in altre regioni.

Circa 1.300 iscritti, militanti per usare il linguaggio leghista, di cui circa un terzo ricopre cariche elettive dai due europarlamentari Gianna Gancia (data in odore di possibile ritorno sugli scranni di Palazzo Lascaris) e “l’ossolano milanese” Alessandro Panza, fino ai consiglieri di microscopici Comuni, passando per i sei deputati e due senatori (di cui uno, Massimo Garavaglia, in realtà paracadutato dalla Lombardia), due sindaci di città capoluogo, il novarese Alessandro Canelli e il biellese Claudio Corradino, 22 consiglieri regionali e sette poltrone nella giunta di Alberto Cirio. È questo il rapido schizzo della Lega in Piemonte, trionfante alle regionali del 2019 e poi segnata da un percorso segnato da sconfitte subite in roccaforti come Alessandria e un ridimensionamento dei voti conseguente l’ascesa di Fratelli d’Italia. Gli stessi dati degli iscritti in crescita fino allo scorso anno, sia pure già con qualche segnale di rallentamento, oggi non ancora definiti negli uffici di via Bellerio sempre più simili a una burocratura, non paiono destinati a quei balzi ormai parte della storia e non più attualità della Lega. E anche questo sarà uno dei temi, anzi problemi, che attendono l’attuale commissario Molinari nella nuova veste di segretario. 

La sua (ri)elezione è scontata: già dai congressi provinciali che il Piemonte ha completato prima degli altri, è emersa la linea della candidatura unitaria che sarà confermata a Chivasso e che marcherà una differenza rispetto al resto del Nord leghista, per non parlare del Sud. In meridione la situazione potrebbe definirsi senza controllo, con assise provinciali neppure sempre convocate, ma anche nell’Italia che fu culla del leghismo le cose non vanno lisce. In Veneto ci si lambicca in possibili riforme statutarie e ci si divide sulla candidatura dell’attuale commissario Alberto Stefani che ha come concorrenti alla guida del partito l’assessore regionale padovano Roberto Marcato e l’ex sottosegretario di Treviso Franco Manzato che non hanno nessuna intenzione di farsi da parte. Non va tanto meglio in Lombardia dove la guerra per bande vede la regione del leader con ancora sei congressi provinciali da fare.

Insomma, altro che bogianen: in Piemonte tutto è andato e, salvo improbabili colpi di scena, andrà liscio. Ma non per questo non va osservato e letto con attenzione l’assetto che Molinari, a partire proprio dall’evidente richiamo alla Carta di Chivasso, pare intenda dare al partito. È una riappropriazione e una riaffermazione del fondamentali quella che si annuncia nella linea del futuro segretario che, anche e soprattutto nel suo ruolo di capogruppo alla Camera, incarna quell’ala convintamente antifascista, atlantista ed europeista del partito che in più di un’occasione è apparsa, non senza ragione, minoritaria rispetto a occhieggiamenti a posizioni diverse (come quella del suo omologo al Senato Massimiliano Romeo, per fare un esempio) rispetto all’invasione russa dell’Ucraina e alla stessa figura di Putin.

Molinari, nonno partigiano, da sempre ogni anno presenzia alla celebrazione dell’eccidio perpetrato dai nazifascisti alla Benedicta sull’Appennino ligure-piemontese e mai ha nascosto le sue perplessità, per non dire altro, dello spostamento dell’asse leghista verso la destra. Lo scenario che si sta definendo con Giorgia Meloni orientata a occupare, senza spallate, il centro del centrodestra e Salvini probabilmente (dis)orientato a lasciare campo a quella parte di nomenclatura leghista più a destra, potrebbe dare facilmente ragione al numero uno piemontese. A quella sua inascoltata analisi e in quella che si preannuncia come la linea per la guida del partito del Piemonte in vista delle regionali dove la Lega dovrà cercare di arginare l’avanzata meloniana, non lasciando solo alla premier la prateria che prima o poi si aprirà con la Forza Italia post Berlusconi. Autonomia e federalismo, parole scolpite nella pietra per decenni, ma quasi cancellate in una conduzione del partito mossa dalla ristretta visione di un inseguimento dell’alleato-avversario sul fronte destro. Dal Piemonte, ancor di più da una figura come quella del presidente dei deputati, potrebbe partire un ritorno alle origini, che sarebbe poi un ritorno al futuro.

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