SACRO & PROFANO

Cambio della guardia a Teologia, Vattimo e quel libro su Francesco

Il vescovo di Torino Repole mette alla direzione della facoltà il fedelissimo don Ceragioli. Il pluralismo è solo di facciata, bandito tutto ciò che si studiava prima. Il filosofo aveva confidato a don Ferretti l'intenzione di scrivere un saggio su Bergoglio. L'isolamento di Olivero

Come già da tempo aveva annunciato lo Spiffero, il nuovo direttore della facoltà teologica di Torino è l’ex rettore del seminario don Ferruccio Ceragioli. Nomina scontata e che ci permette di  riprendere, come ci eravamo proposti, l’articolo in cui quest’ultimo – firmato insieme al sodale Germano Galvagno – prende spunto dalla morte di monsignor Giuseppe Ghiberti, per tracciare un profilo della facoltà teologica esordendo con la delegittimazione acritica di tutto quanto ci fosse «prima»: prima del Concilio, prima di loro e prima della «primavera desertificata» degli ultimi sessant’anni, definendo la teologia che li ha preceduti come «ingenua ripetizione della dottrina acquisita una volta per tutte». Sottintendendo così come non ci possa essere nulla di definitivamente acquisito e che la «vera teologia» debba rifuggire da ogni certezza, ma solo ricercare nella nebbia, al fine di restare umile…! Ceragioli e Galvagno continuano poi con la autoglorificazione, descrivendo il «pluralismo teologico» che sarebbe oggi presente nella facoltà, segno di apertura e di reale maturità intellettuale. Peccato si tratti di un “pluralismo irregimentato”, nel quale è consentito qualche piccolo movimento, ma sempre all’interno dell’abbandono della metafisica, della sudditanza all’ermeneutica come orizzonte ultimo del necessario, inevitabile e richiesto disprezzo per tutto quanto ha preceduto il Concilio. Aderendo così in pieno all’«ermeneutica della rottura» (riprovata da Benedetto XVI) con oltre venti secoli di cristianesimo. Con l’eccezione, forse, della Chiesa pre-costantiniana, che ha comunque il peccato originale di essere pre-conciliare. Infine, proprio coloro che postulano la dissoluzione di ogni “struttura” ecclesiale, ecco che usano l’argomento ex auctoritate per accreditarsi: l’arcivescovo Roberto Repole era il direttore della facoltà e molti professori partecipano e sono coinvolti alla vita istituzionale e associativa della Chiesa italiana.

Ora tutti sanno che la facoltà è, come si dice, “alla canna del gas” e che sta rastrellando alunni in tutto il Piemonte, imponendo la chiusura di altri centri teologici, che è poco più di un “liceo teologico” dal respiro corto, che certi professori “non allineati” sono silenziati (vedasi il caso Ardusso versus Casale), che nelle associazioni (teologica, liturgica, etc.), spesso basta presenziare – sottraendo tempo alla pastorale – per ricevere, prima o poi, qualche incarico di presidenza, soprattutto quando i vecchi sono stanchi e lasciano spazio ai più giovani. Infine, non pare bene motivare la nomina dell’arcivescovo per accreditare la facoltà. Tutti sanno che la sua nomina fu dovuta ai compiacenti libretti, teologicamente inconsistenti, coordinati dall’allora professor Repole, ai quali Benedetto XVI rifiutò la prefazione – per «mancanza di tempo» (sic!) – e che scatenarono il famoso caso di monsignor Dario Viganò, amico di monsignor Mauro Rivella, che lo portarono alle dimissioni da prefetto della segreteria per le comunicazioni. Forse, molto più credibili ed eleganti – sacerdotalmente eleganti – sarebbero stati i due sodali se si fossero limitati a commemorare quella santa persona di monsignor Ghiberti, che certamente non era un «prigioniero dell’ermeneutica».

***

La scomparsa di Gianni Vattimo è stata l’occasione, nella profluvie di articoli celebrativi, per fare menzione della sua mai rinnegata militanza cattolica giovanile e – ovviamente – dell’indubitabile influsso che la fede cristiana ha avuto nella riflessione filosofica del teorico del pensiero debole. Alcuni hanno ricordato come ad avviarlo agli studi filosofici fosse stato il suo direttore spirituale, il tomista monsignor Pietro Caramello (1908-1997). Alla metà degli Anni Cinquanta, Vattimo era delegato diocesano degli studenti della Giac (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) ed in un colloquio che avemmo con lui anni fa mi raccontò degli incontri formativi – e anche dei suoi rispettosi scontri – con il canonico di S. Lorenzo, don Giovanni Battista Bosso, altra luminosa e dimenticata figura del clero torinese, che fu per trent’anni assistente ecclesiastico diocesano della Giac. Ma i suoi più vibranti ricordi risalivano a quando entrò nell’orbita del mitico presidente generale dell’Azione Cattolica – il gemellologo Luigi Gedda, vincitore insieme a Pio XII delle elezioni politiche del 1948, l’inventore dei Comitati Civici. Egli aveva fondato anche un movimento di spiritualità laicale all’interno della Giac per i cattolici più colti e ferventi, denominato “Getsemani”. Il giovane Vattimo entrò così a far parte di questo gruppo di élite, gli “Operai del Getsemani”, che avevano la loro casa di ritiri spirituali in un grande e magnifico edificio a Casale Corte Cerro, nei pressi di Verbania, dove Gedda incontrava i partecipanti uno ad uno. Il futuro filosofo ne rimase affascinato, così come dei campi scuola al passo della Mendola – dove commentava i misteri del rosario – e dove conoscerà i dirigenti dell’Azione Cattolica, Carlo Carretto e Mario Vittorio Rossi, che si opponevano a Gedda su una linea più progressista e aperta ai fermenti della nouvelle théologie.

Vattimo seguirà la loro parabola fino alla rottura con la Chiesa ma non con la fede cattolica che nella sua complessa e vasta riflessione filosofica deve diventare «un cristianesimo emancipato da tutti gli elementi metafisici che hanno rovinato la nostra situazione di essere finiti, facendoci illudere che esista un qualche ordine oggettivo anche dei valori etici, qualcosa che invece non era altro che l’ordine che la società ha creduto di imporre per tanti anni». In tal modo, allineandosi a tutto un filone teologico oggi prevalente, la Chiesa deve dissolversi in quanto ha ancora la pretesa «di voler disporre di un accesso privilegiato al nocciolo oggettivo e immutabile della rivelazione cristiana» perché «mentre San Tommaso e il Medio Evo pensavano di provare l’esistenza di Dio a partire dall’ordine del mondo, il pensiero religioso moderno cerca le prove di Dio soprattutto nella precarietà e tragicità della condizione umana. Oggi le tante contraddizioni della scienza-tecnica, dalla devastazione ecologica ai nuovissimi problemi della bioetica, sembrano dover far riconoscere a tutti che “ormai solo un Dio ci può salvare”, come dice Heidegger».

Nonostante fosse diventato l’emblema torinese della sinistra libertaria e radical, Vattimo è ricordato da tutti – noi compresi – non solo come un docente e poi preside a Lettere e filosofia, affascinante e brillante, ma anche come chi apriva sempre la porta agli studenti e aveva simpatia anche con i giovani di Cl – allora additati come fascisti – che andavano a proporgli dibattiti e che con i loro banchetti, spesso rovesciati e bruciati, vendevano il loro mensile, Litterae Comunionis.

I funerali del filosofo non potevano che aver luogo nella chiesa di San Lorenzo e celebrate dal suo amico, confessore e quasi coetaneo, don Giovanni Ferretti. Il quale, sul settimanale diocesano, ha ricordato come Vattimo volesse scrivere un libro su papa Francesco che vedeva come il leader di una nuova internazionale comunista nella lotta per la liberazione dei poveri contro il sistema capitalistico: «Quel libro non è riuscito a scriverlo anche se vi stava lavorando. Gli auguriamo di contemplarne ora il migliore svolgimento nel pieno splendore della verità di Dio». Notare il richiamo alla Veritatis Splendor, la più celebre enciclica di quel san Giovanni Paolo II il cui pensiero era agli antipodi di quello del filosofo torinese.

***

Il caso Rupnik, l’artista ex gesuita accusato di plurime molestie ad almeno una ventina di donne, scomunicato e poi condonato per il grave delitto di assoluzione del complice, continua a riservare sorprese. E mentre i suoi mosaici iniziano ad essere rimossi da alcune chiese è sceso in campo in sua difesa il Vicariato con un comunicato in cui minimizza le accuse contro di lui e solleva dubbi sulla scomunica, dimenticando il comunicato della Compagnia di Gesù in cui si dice che: 1. c’è stata effettivamente l’assoluzione del complice; 2. la scomunica è stata comminata dal Dicastero per la dottrina della fede; 3. il medesimo Dicastero nel maggio 2020 ha revocato il precedente decreto di scomunica.

Intanto il papa ha ricevuto Maria Campatelli, direttrice del Centro Aletti di cui padre Marko Ivan Runik era gran parte e che è stato un vero schiaffo per le sue vittime umiliate proprio mentre tutti si ubriacano di sinodalità e di ministero alle donne. Molti i commenti indignati, su tutti vogliamo riprendere quello di Massimo Faggioli, esponente di spicco della progressista scuola di Bologna di Alberigo e Melloni, professore di storia delle religioni all’Università Villanova in Pennsylvania e che nessuno mai potrà accusare di tradizionalismo: «Oggi è uno di quei giorni in cui aver vissuto ai tempi dell’Unione Sovietica aiuta a leggere le notizie dal Vaticano». Sì, perché tutti sanno che la vicenda Rupnik ha avuto – come disse un altissimo componente della Curia Romana – la regia di papa Francesco. Il quale quando deve affrontare i casi spinosi o quando vuole imporre la sua volontà evita accuratamente la via giudiziaria e cioè lo svolgimento di un regolare processo – fa eccezione il caso Becciu per motivi opposti, ma sceglie sempre la “via amministrativa”, inappellabile e definitiva. Nel caso di Rupnik un regolare processo canonico avrebbe potuto appurare con oggettività quanto accaduto e mettere in luce le potenti amicizie e coperture dell’ex gesuita in quel di Santa Marta che fa rimpiangere i tempi della corte pontificia.

***

Così come avviene per gli ordini religiosi e per la rimozione dei vescovi non in linea con il pensiero unico bergogliano, il metodo è sempre il solito. Alcuni eclatanti esempi. Di questi giorni è la notizia che la procura ha definitivamente prosciolto l’ex arcivescovo di Parigi, monsignor Michel Christian Alain Aupetit, dall’accusa di aver usato violenza contro una donna. L’indagine era stata avviata senza vi fosse una prova ma essa era servita al papa per «accogliere» le sue dimissioni, accettate. Interrogato in proposito sul volo di ritorno dal viaggio in Grecia e Cipro, Francesco rispose che le dimissioni dell’arcivescovo erano state da lui accettate «non sull’altare della verità, ma sull’altare dell’ipocrisia», sulla spinta dell’opinione pubblica e, naturalmente, del «chiacchiericcio» alimentato a S. Marta. Quando si vuole far dimettere qualche vescovo «indietrista», troppo cattolico o che ha magari il seminario pieno che – com’è noto – è sempre per il papa un cattivo indice, il sistema funziona così. Si incentivano da parte dei fedeli o più frequentemente dei preti scontenti l’invio di accuse generiche e si inizia con l’inviare un visitatore che – ben istruito – invia una relazione aperta a tutte le soluzioni. Di solito poi il nunzio raccomanda al vescovo di non difendersi ma di dare “spontaneamente” le dimissioni “per il bene della Chiesa”. Se questi recalcitra, volendo chiarire la sua posizione secondo il diritto, gli si manda un coadiutore di orientamento completamente opposto, azzoppandolo così nelle funzioni e mettendolo sotto tutela, costringendolo poi a dimettersi anzitempo.

In Italia le vittime più illustri di questo sistema para-sovietico sono stati il vescovo di Albenga-Imperia, monsignor Mario Oliveri, dimissionato nel 2015 e il vescovo di Ascoli Piceno, monsignor Giovanni D’Ercole, dimissionato nel 2020. Ancora oggi non sappiamo perché si dovettero dimettere. Adesso è il turno del vescovo di Fréjus-Toulon, monsignor Dominique Rey, colpevole di aver favorito le ultime forze vive del morente cattolicesimo francese. Da febbraio è in corso nella sua diocesi la visita canonica e – provvedimento inaudito – sono state sospese le ordinazioni sacerdotali. Il suo destino appare segnato. Ma prima di lui era toccato al vescovo di Lourdes monsignor Nicolas Brouwet, al quale nel 2019 fu sottratta la cura del santuario affiancandogli un vescovo delegato, per poi trasferirlo a Nimes. Lo stesso in questi giorni sta avvenendo per il vescovo di Tyler (Texas) monsignor Joseph Strickland, denunciato dai soliti come nemico del papa per le sue chiare ed esplicite posizioni ortodosse secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica e per questo sottoposto alla consueta visita canonica che si concluderà – manco a dirlo – con la rimozione. In sua difesa è sceso in campo il cardinale Gerhard Muller, ex prefetto della congregazione per la dottrina della fede, anche lui “misericordiato” senza tanti complimenti. Nell’occasione, il cardinale ha ricordato che un vescovo può essere dimissionato «soltanto con procedimento di giustizia e se si è reso colpevole di qualcosa di grave – eresia, scisma, apostasia, crimine o comportamento totalmente non sacerdotale –, ad esempio la pseudo-benedizione di persone di entrambi i sessi o di un sesso nelle relazioni extraconiugali, che offende Dio e defrauda le persone della loro salvezza».

A volte qualcuno viene lasciato al suo posto ma è come se non esistesse più. È il caso dell’ex astro della teologia italiana, monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, uno dei principali discepoli del cardinale Carlo Maria Martini, che fu scelto dallo stesso Francesco per guidare il sinodo sulla famiglia affinché le proposte del cardinale Walter Kasper sulla comunione ai divorziati potessero avere via libera. L’incauto Bruno Forte si lasciò però scappare il piano che il papa gli aveva affidato: «Se parliamo esplicitamente della comunione ai divorziati risposati – disse Forte citando Francesco – non sai che tremendo casino (sic!) verrà fuori. Allora non ne parliamo apertamente, facciamo in modo che ci siano le premesse e quindi ne trarrò le conclusioni». Da allora il destino di Forte fu segnato: niente più incarichi curiali o alla Cei, ai quali era preconizzato, e quindi niente più porpora, ma ostracismo assoluto e ringrazi Iddio se potrà rimanere Chieti fino ai 75 anni.

In Piemonte, la stessa sorte è toccata al vescovo di Pinerolo.  Il 23 maggio 2022, in piena Assemblea generale della Cei, l’incauto Derio Olivero, prendendo in parola l’invito del papa ad esprimersi liberamente, osò chiedergli il motivo per cui Francesco non aveva partecipato – snobbando persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e non menzionando l’evento nemmeno durante l’Angelus domenicale – all’incontro finale tra vescovi e sindaci del Mediterraneo che si era svolto a Firenze domenica 27 febbraio e dove era atteso. Il papa rispose irritato che fu per problemi di salute ma anche a causa della presenza dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti implicato – secondo lui – nell’industria delle armi e pertanto «era meglio che il papa non andasse». Da allora il povero Derio, oltre a sapere che con Bergoglio ha chiuso, deve anche stare anche molto attento a parlare, limitandosi a discettare – come sta avvenendo – di ricette di gastronomia e andare a ballare alle feste patronali.

La regola però non si applica per alcuni amici, ma non tutti (Zanatta, Madariaga, Rupnik) e per loro si va anche oltre la presunzione di innocenza. Dicono gli stessi prelati argentini che questo fosse il metodo di un certo generale che corrisponde al nome di Juan Domingo Perón. Con questi chiari di luna, l’adagio che il caustico Giuseppe Gioacchino Belli – lui stesso dipendente pontificio – raccomandava ai suoi colleghi, è diventata la divisa dei nostri vescovi: «In Vaticano, se voi vive, devi imparà a fà er morto…».

***

Ultimo colpo di scena: il cardinale spagnolo Luis Francisco Ladaria, ex prefetto del dicastero per la dottrina della fede, ha annunciato che non parteciperà ai lavori del sinodo come membro di nomina pontificia. Qualcuno ha collegato la decisione al caso Rupnik e al ridicolo comunicato del Vicariato che mette in discussione l’operato del cardinale, ma qualcun altro ha ricordato che la sua congregazione fu quella che il 15 marzo 2021 firmò il famoso Responsum – approvato dal papa – circa la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso. Quando si dice il caso…

print_icon