POLITICA & GIUSTIZIA

Molinari assolto dopo tre anni, intanto s'è giocato la presidenza della Camera

Tra gli effetti collaterali di un processo che non doveva neppure essere istruito c'è pure la mancata elezione allo scranno più alto di Montecitorio. Nemici e pure qualche alleato (Meloni in primis) hanno usato la vicenda giudizia per metterlo fuori gioco

L’assoluzione di Riccardo Molinari con la formula giuridicamente più ampia, “il fatto non sussiste”, che – come riportano i testi giuridici – nega il presupposto storico dell’accusa, arriva dopo tre anni dall’avvio dell’inchiesta sulle presunte (oggi si può senza ombra di dubbio, affermare inesistenti) irregolarità nelle procedure per le candidature alle comunali di Moncalieri. Un tempo, rispetto ad altre inchieste, tutto sommato neppure troppo lungo. Ma la giustizia, anzi più esattamente l’operato della magistratura giacché sempre più spesso risulta difficile unirle in sinonimo, tra i tanti poteri non ha quello di riportare indietro le lancette dell’orologio, tantomeno le pagine dei calendari.

E così se l’assoluzione restituisce piena liberazione da ogni ombra di sospetto, anche pesante come quello gettato da un’inchiesta che alla luce della sentenza non avrebbe avuto ragione d’essere avviata, non può altrettanto rimediare a tutta una serie di danni che definire collaterali, forse è riduttivo. Tralasciando ma non sminuendo quelli personali, nel caso del parlamentare della Lega c’è un passaggio della sua giovane (d’età) ma già lunga carriera che incrocia l’azione del pubblico ministero e ne ricava un cambio di direzione se non obbligato, certamente indotto e fors’anche utilizzato da chi non ha evitato di cogliere l’occasione.

Bisogna tornare indietro all’autunno dello scorso anno, poche settimane dopo le elezioni politiche che porteranno Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e che avrebbero dovuto portare il politico piemontese alla presidenza della Camera. Perché è proprio questo l’obiettivo mancato, anzi negato anche e soprattutto in virtù di quell’imputazione che gravava su Molinari. Capogruppo alla Camera nella scorsa legislatura, dopo aver ricevuto ben presto il testimone da Giancarlo Giorgetti divenuto ministro del primo governo gialloverde, Molinari rieletto in Parlamento e sempre tra i massimi vertici del partito era l’uomo indicato, da più parti, per sedere sullo scranno più alto di Montecitorio. Favorito da un profilo pacato, una maturata conoscenza delle procedure parlamentari e una capacità di dialogo anche con le minoranze.

In quei giorni Matteo Salvini, pur senza farne apertamente il nome, lasciava accreditare l’ipotesi sempre più concreta di Molinari alla presidenza, nel partito si dava pure tra i maggiorenti la cosa ormai per fatta. C’era in verità, un serpeggiare mai confermato, mai smentito come non potrebbe essere altrimenti di uno sguardo preoccupato della premier in pectore verso il deputato piemontese che lei conosceva bene, così come le sue capacità, tanto da non farle affatto brillare gli occhi all’idea di averlo fisicamente al di sopra di lei e dei posti riservato al suo futuro governo. 

Da par suo e dell’appena ricordata abilità e conoscenza dei maccanismi della politica, in quei giorni Molinari mantenne sempre un profilo più che basso, nessuna dichiarazione, nulla che potesse anche lontanamente creare ostacoli sulla strada che per lui pareva ormai in discesa. E tale, in effetti, era. A rendere più liscio il percorso, che poi si sarebbe rapidamente trasformato in sdrucciolevole, era anche la ferma intenzione della Meloni di avere Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, aprendo di fatto alla Lega la via per quella della Camera. Ben presto e all’improvviso, definita la spartizione tra partiti, la questione si ingarbugliò sul nome. Nessuno mai ammise e mai ammetterà l’esistenza di un veto all’interno del centrodestra su Molinari, ma al suo posto tirandolo fuori quasi come un coniglio dal cilindro Salvini indicò per la presidenza il veneto, ultracattolico conservatore Lorenzo Fontana, già ministro della Famiglia nel primo Governo Conte. Una giravolta, forse obbligata, per il leader della Lega su cui ha, indiscutibilmente, pesato come un macigno proprio lo stato di indagato di Molinari. L’immagine della terza carica dello Stato in tribunale sul banco degli imputati, vieppiù per un’ipotesi di reato legato alle elezioni era più di un argomento convincente nelle mani di chi gli remava contro.  

Oggi, di fronte all’assoluzione Salvini manda “un abbraccio all'amico Riccardo, assolto dall'accusa di falso elettorale perché il fatto non sussiste. Anni di fango e di veleni spazzati via senza se e senza ma, alla faccia di chi – prosegue il leader – anche nelle scorse ore, evidenziava le richieste dell'accusa sperando in una condanna”. Un anno fa probabilmente lo avrebbe abbracciato con egual trasporto al momento dell’elezione alla presidenza della Camera, ma quel fardello appioppatogli da un’ accusa caduta completamente tre anni dopo, impedì di assumere quel prestigioso incarico. Colui che lo ricopre festeggia anch’egli l’assoluzione del compagno di partito, “Apprendo con gioia – scrive in una nota molto istituzionale Fontana – la notizia dell'assoluzione degli onorevoli Riccardo Molinari e Alessandro Manuel Benvenuto. Rivolgo loro le espressioni della più sentita vicinanza”.

Salvini, legato a Molinari da una militanza incominciata per entrambi con i calzoni corti, sempre un anno fa in quei giorni della grande delusione disse dell’amico: “È il miglior capogruppo”. Lo riconfermò lì, nella capace e attenta guida dei deputati leghisti. Il minimo per il politico arrivato a un passo dalla presidenza di Montecitorio, poi fermato grazie (anche e soprattutto) a quell’inchiesta scioltasi come neve al sole, tre anni dopo. Senza, però, poter tornare indietro nel calendario scritto come un atto d’accusa.