SACRO & PROFANO

Repole pronto a lasciare Torino, rumors sulla chiamata del papa

Si fanno sempre più insistenti le voci di una imminente "promozione". Per l'attuale vescovo la guida di un importante dicastero e, soprattutto, la porpora cardinalizia. La visita del patriarca di Gerusalemme Pizzaballa. L'Europa senza radici

Quando nel mondo ecclesiastico le voci iniziano a girare non si fermano più. Da giorni è iniziato un nuovo tam-tam fra chiese e sacrestie secondo il quale l’arcivescovo Roberto Repole sarebbe in procinto di essere chiamato dal papa a Roma per ricoprire un altissimo incarico curiale. Venuto meno il posto a lui più consono e cioè quello di prefetto del dicastero della dottrina della fede dove si è allocato il fedele Tucho Fernández, sarebbero disponibili il dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica (religiosi), oppure quello dei laici. Nel primo è tutt’ora prefetto dal 2002 il cardinale brasiliano João Braz de Aviz che ha già compiuto 77 anni e che ha ingaggiato una lotta furibonda contro tutte le congregazioni religiose tradizionali commissariandole e sopprimendole, nel secondo è prefetto lo statunitense cardinale Joseph Farrell di 76 anni il quale nei sette anni in cui fu ausiliare e sodale del famigerato predatore sessuale, il  cardinale Theodore McCarrick, arcivescovo di Washington, ora dimesso dallo stato clericale, non si era mai accorto di nulla pur abitando nello stesso stabile.

Gli informati dicono che sarebbe questa la via più breve per raggiungere la porpora da parte del vescovo torinese e poter così entrare in conclave, tenuto conto che è intenzione del papa continuare a mantenere le sedi metropolitane tradizionali – tra cui Torino – senza l’ambito titolo cardinalizio. Ancora ieri, a margine dei funerali di don Daniele Bortolussi, presieduti dallo stesso arcivescovo a S. Bernardino, la prospettiva di un imminente cambio al vertice della diocesi è stato al centro di alcuni colloqui riservati. Chissà.

La voce viene fatta circolare dall’inner circle “boariniano” ma a questo proposito va osservato – come gran parte del clero sa bene – che i livelli di comunicazione del gruppo sono due: quello che viene detto ai preti con larghi e benigni sorrisi di facciata per mandare messaggi, e quello che si dicono fra di loro nel cerchio ristretto dove si prendono le decisioni, si esprimono giudizi, si imposta la comunicazione. I consigli episcopali e presbiterali hanno solo compiti di ratifica per illudere – sempre di meno per la verità – i non adepti di contare qualcosa. Un’altra voce che viene fatta filtrare dai boarinerghes è il pio racconto di come Repole sia assurto all’episcopato. Secondo la leggenda metropolitano messa in giro, l’ingenuo teologo torinese fu inopinatamente convocato a Santa Marta dove Sua Santità gli rivolse una raffica di domande di ogni genere sulla diocesi così che questi, tornato a Torino, non se ne dava ragione mai immaginando – O sancta simplicitas! – che invece era l’esame di idoneità per nominare proprio lui alla cattedra di San Massimo. Lo scopo della storia è evidente: siamo stati scelti dal Santo Padre in persona, che approva la nostra linea e la nostra idea di Chiesa… Quid Romae faciam? Mentiri nescio.

***

In occasione della memoria della Sindone, che si celebra ogni anno il 4 maggio, la diocesi di Torino ha invitato per la ricorrenza il patriarca latino di Gerusalemme il cardinale Giuseppe Pizzaballa. Poteva essere questa l’occasione per solennizzare la completa apertura al pubblico della cappella del Guarini ormai   restaurata dopo l’incendio del 1997. Forse era troppo per la sensibilità liturgica dei nostri assecondare il desiderio, più volte espresso alle autorità civile dall’arcivescovo monsignor Cesare Nosiglia, e far celebrare Sua Beatitudine, così come avveniva prima dell’incendio ad ogni 4 maggio, sull’altare del Bertola che per secoli ha custodito il Sacro Lino e come era avvenuto pochi giorni prima alla presa di possesso di Sant’Onofrio al Gianicolo, chiesa titolare del patriarca. Così invece l’altare della Sindone sarà completamente musealizzato con grande soddisfazione dei liturgofrenici nostrani.

Ma queste – diranno loro – sono bazzecole da indietristi, sì perché la liturgia è ben altro e infatti lo si è visto con la concelebrazione in duomo quando il patriarca è apparso con indosso un camice fantozziano così che la casula e il piviale gli arrivavano quasi alle ginocchia. Speravano – e qualche indizio ci incoraggiava in tal senso – che il giovane cerimoniere incaricato della sostituzione temporanea del titolare, monsignor Giacomo Martinacci, oltretutto fresco di alti studi liturgici, o che il parroco del duomo, il buon don Silvio Cora, rialzassero, il primo la dignità e il decoro delle celebrazioni episcopali, e il secondo mettesse fine alla trasformazione della cattedrale in un magazzino, ma ci eravamo illusi.

Ma queste, diranno ancora i liturgisti, sono fissazioni in quanto il patriarca è stato invitato a Torino per ben altro. Infatti, questi è parso oltremodo seccato e quasi indispettito dalle petulanti domande postegli dagli intervistatori diocesani che alla Consolata continuavano a chiedergli giudizi sul governo israeliano tanto da farlo infine sbottare: «Ma voi fate sempre politica…», dove quel «voi» dice tutto. Ben più disteso Sua Beatitudine è apparso quando si è recato in visita al Cottolengo il giorno dopo, accolto dal Padre Generale, Carmine Arice e da tutta la comunità. Dopo aver visitato i pazienti e gli ospiti della Piccola Casa ha presieduto il Vespro solenne, indossando magnifici paramenti e con un camice finalmente adeguato e dignitoso lasciando un messaggio in cui afferma che: «Il Cottolengo è l’amore in azione, frutto dell’intenzione di un prete che è stato ferito dalla morte di una donna sola. Il suo amore è stato contagioso e ha toccato le vite di tanti e tante nelle varie generazioni. Grazie per il segno che siete».

***

Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi circa l’avvenuta riduzione della Chiesa a una qualsiasi ong e dei vescovi a funzionari del minculpop politically correct deve leggersi quella summa di luoghi comuni che è la Lettera all’Unione Europea a firma del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e di monsignor Mariano Crociata, presidente della Comece, in cui si rivolgono alla «Cara Unione europea» come se fosse una persona. Qualcuno vi ha scorto una perfetta identificazione di temi con il Rapporto Draghi, senza nessuna analisi critica e con vaghi richiami ai Padri fondatori, ma soprattutto senza alcun afflato soprannaturale, senza alcun richiamo alle radici cristiane e con un avallo senza esitazioni a tutte le prassi europeiste in corso. Conta «esserci» e allora avanti con le transizioni, ambientale e digitale, il riarmo e la difesa europea («le esigenze di sicurezza), l’invito agli agricoltori a essere uniti con la Ue, l’accoglienza senza se e senza ma e dove soprattutto la parola magica è «condivisione» in cui non importano i contenuti ma lo stare insieme. La salvezza non viene da Cristo ma dal partecipare e i cattolici non devono avere punti fermi da proporre e far valere ma devono solo essere sempre solidali.

Criteri insomma tutti mondani. Infatti, per gli estensori, non è la fede che giudica i criteri e i valori a cui la Ue si vuole richiamare ma viceversa. Perciò Dio non vi è mai nominato e non vi compare una sola parola profetica come sarebbe stata la critica al voto europeo di qualche settimana che ha visto l’inserimento del diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali della Ue. Così il ricco magistero sull’Europa di Benedetto XVI – lui sì vero profeta – non ha avuto nemmeno l’onore di una citazione. Sarebbe stato troppo scomodo. Ancora da cardinale Joseph Ratzinger, trattando dei fondamenti spirituali dell’Europa, notava come nella nostra società europea viene giustamente sanzionato chi dileggia la fede di Israele o l’Islam «se invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco allora che la libertà diventa il bene supremo, limitare il quale sarebbe minacciare o addirittura abolire la tolleranza e la libertà in generale. La multiculturalità che viene opportunamente incoraggiata e favorita è soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza basi comuni, senza punti di orientamento offerti dai valori propri. Sicuramente non può sussistere senza il rispetto di ciò che è sacro, se Dio non è estraneo a noi stessi. Se non facciamo questo non solo rinneghiamo l’identità dell’Europa, bensì veniamo meno anche ad un servizio agli altri che essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo, la profanità assoluta che si è andata formando in Europa è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto, proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi».

print_icon