ANALISI

Regionali ed Europee, questione di feeling. Ecco perché Cirio (con)vince alle elezioni

Empatia personale e buongoverno: le due chiavi che confermeranno il governatore alla guida del Piemonte. La scommessa: contare di più a Bruxelles. Analisi del giurista Stefano Ambrosini, attento osservatore della politica (non solo locale)

A giorni in Piemonte si giocherà una partita politica – l’abbinata Regionali ed Europee – che non avrà luogo altrove nel Paese: motivo, questo, di notevole interesse anche per chi la politica non la pratica ma la osserva e in qualche modo prova, talora non senza fatica, a comprenderla.

Iniziando il ragionamento dalle Regionali, è difficile non domandarsi il perché di sondaggi così lusinghieri per il Presidente e la Giunta in carica. Non prima di aver dato atto a Gianna Pentenero di una notevole generosità rispetto a quella che viene considerata dai più una “mission impossible”, a riprova della passione e dello spirito di servizio (qualcuno potrebbe dire “di sacrificio”…) che continuano ad animare lei come altri dirigenti del centrosinistra.

Una prima chiave di lettura delle previsioni elettorali di cui si diceva è certamente rappresentata dalle difficoltà e dalle divisioni che non da oggi attraversano, a livello sia nazionale che locale, il Partito Democratico e il Movimento Cinquestelle. Alberto Cirio e la sua coalizione veleggiano sull’onda del consenso maggioritario che il centrodestra unito sta per ora registrando nel Paese. Ma questa spiegazione, pur realisticamente fondata, non appare esaustiva. Vi è infatti un proprium di queste elezioni piemontesi che prescinde dalle dinamiche nazionali e che risiede nell’oggettiva popolarità di Cirio. Quali allora le ragioni alla base di ciò? E in che misura questo vale anche per Torino e provincia e non solo per il collegio del Piemonte 2, appannaggio tradizionale del centrodestra?

Nella Prima Repubblica chi governava aveva a disposizione, a tutti i livelli, una serie di “leve” generatrici di consenso: di qui l’adagio andreottiano “il potere logora chi non ce l’ha”. Da anni, come tutti sanno, non è più necessariamente così. Basti pensare, in tempi recenti, alle sconfitte di vari politici in carica come sindaci o governatori, piuttosto che alla vittoria nelle ultime elezioni generali, fra le forze politiche maggiori, dell’unico partito di opposizione, Fratelli d’Italia. Non basta quindi l’essere il governatore in carica a spiegare perché Cirio è fortemente popolare in Piemonte. La risposta all’interrogativo sta, forse, in due parole-chiave: sostanziale buongoverno (nei limiti del fattibile) ed empatia della persona. La Giunta regionale è infatti percepita come un gruppo di amministratori che si sono parecchio impegnati e che in un frangente non semplice, a cominciare dalla pandemia, hanno cercato di conseguire quei risultati che erano alla portata e di evitare di incorrere in errori politici gravi. Se ci pensiamo, è più di quanto possa dirsi di molte altre situazioni ed è qualcosa che in parte accomuna la Regione all’esperienza della giunta torinese di Stefano Lo Russo (forse più silenzioso ma non meno operoso), con il quale vi è infatti una sana “concordia istituzionale” che non può che giovare a Torino e al Piemonte: magari implementando ulteriormente l’organizzazione e la valorizzazione di eventi (fieristici, culturali, sportivi, ecc.), rispetto ai quali molto è stato fatto ma esistono margini di miglioramento, come dimostra, non da oggi, l’incessante attivismo dei “cugini” milanesi.

Chi ha guidato in questi anni la Regione, poi, ha messo in campo un oggettivo valore aggiunto: la sua empatia come persona. Credo che questa, in politica, sia una cifra di crescente importanza, perché sempre di più i cittadini si sentono naturalmente portati verso coloro che percepiscono vicini a sé, ai propri problemi e al proprio territorio. Da questo punto di vista Cirio ricorda Sergio Chiamparino, che chi ha visto “all’opera” nei suoi vari ruoli non ha potuto, anche da questo punto di vista, non apprezzare. Con una peculiarità: Cirio non è torinese e quindi non è mai stato sospettato di “torinocentrismo”. Eppure, il governatore, che da buon albese conosce a fondo il valore della provincia (e l’Italia è fatta di province ancor più che di città), si è prudentemente guardato dal coltivare stucchevoli contrapposizioni, o peggio sterili revanches: non a caso, all’indomani della vittoria alle regionali disse: “Ho voluto seguire i risultati ad Alba per il mio orgoglio albese. Questo non significa che dal torinocentrismo io voglia portare il provinciacentrismo”. E in effetti non mi pare che si sia corso un rischio del genere in questi anni. Perché in fondo equilibrio e buon senso, pure in politica, non sono doti da poco. Come scrisse testualmente Enzo Biagi, “c’è una dote precipua dei piemontesi che non è la genialità, lo spirito, ma il buonsenso. Credo che Cavour e Giolitti siano stati politici che ne avevano tanto”. Fatte le debite proporzioni, s’intende! E nel buonsenso del politico sta anche l’evitare quel pizzico di saccenza che ogni tanto i piemontesi – e i torinesi in particolare – denotano e che fece dire a un altro grande giornalista, Indro Montanelli, in un dialogo immaginario (e solo apparentemente paradossale) con i piemontesi: “Avete ragione, ma è proprio questo il vostro torto”.

Altra caratteristica che connota Cirio e che pare destinata a far presa anche su una parte dell’elettorato non di centrodestra (tanto più a Torino) è il suo dichiarato antifascismo (un aspetto che ricorre varie volte in questo piccolo contributo, essendo l’autore nipote di un allora maggiore dell’esercito che prese parte alla lotta partigiana, rischiando la vita in diverse occasioni). Rammentiamo tutti le parole di Cirio, pronunciate al cospetto del Presidente Sergio Mattarella, sui tanti cippi che in Piemonte ricordano la lotta partigiana: non sembravano, e non credo fossero, “di maniera” e non a caso provenivano da chi è nato e politicamente cresciuto in una città medaglia d’oro al valore militare proprio per il tributo di sangue pagato al nazifascismo e oggi assai ben governata da un sindaco schiettamente antifascista come Carlo Bo. D’altronde Cirio è stato legato a figure come il socialista Aldo Viglione e ad altre della Democrazia cristiana che, pur molto lontane dal comunismo, dell’antifascismo facevano una bandiera.

Cirio potrà infine giovarsi, in questo frangente elettorale, dell’appoggio di chi come Giacomo Portas, incautamente “maltrattato” da alcuni esponenti apicali del Pd alle scorse politiche, con i suoi Moderati è in passato risultato determinante in diverse competizioni a Torino. Non questa volta, probabilmente, ma – come suolsi dire – quod abundat non vitiat, in termini di contributo di idee e strategie e non soltanto di voti (discorso analogo potrebbe valere per i Popolari di Beppe Fioroni).

Insomma, tutti questi fattori inducono a riscontrare oggi – e pronosticare a breve – un significativo “feeling” dell’attuale giunta con l’elettorato, anche, più che in passato, con quello torinese.

Venendo alle candidature alle elezioni europee, nel collegio Nordoccidentale non mancano, fortunatamente, figure di oggettivo spicco. Il Pd schiera ad esempio Brando Benifei, suo attuale capo delegazione al Parlamento europeo, lungo cursus honorum a dispetto dell’età (38 anni), inserito otto anni fa da Forbes tra i 30 personaggi under 30 più influenti della politica europea. In generale, il nome forse più noto, autentico vessillo di impegno europeista, è quello della candidata degli Stati Uniti d’Europa Emma Bonino, le cui battaglie e la cui storia personale dovrebbero garantire, anche in questo caso, un meritato consenso. Per parte sua Forza Italia propone, oltre naturalmente al coordinatore nazionale, alcuni volti decisamente popolari in Piemonte. Ma il profilo di maggiore standing è probabilmente quello di Letizia Moratti, che in passato ha ricoperto ruoli prestigiosi senza mai, a detta dei più, demeritarli a posteriori: ministro, presidente della Rai, sindaco di Milano (prima donna sullo scranno più alto di Palazzo Marino), vicepresidente di Regione Lombardia. E che come candidata presidente della Lombardia per l’allora Terzo Polo nel 2023 ha raccolto oltre 320.000 voti. Di profili come questi la delegazione italiana in Europa non potrà che giovarsi (e sarà un caso, o forse no, ma anche il padre della Moratti è stato un noto partigiano, per questo decorato al valor militare).

Non mancano insomma, anche nel collegio nordoccidentale, candidature di livello, che già in passato hanno dimostrato un non trascurabile “feeling” con l’elettorato. L’auspicio, di là dalle logiche di appartenenza partitica, è che gli eletti sappiano interpretare al meglio lo spirito europeista e che si adoperino proficuamente per un obiettivo che dovrebbe essere comune a tutta la nostra politica: rendere l’Italia più forte e più ascoltata nelle sedi unionali. In fondo, quello che nel 1957 istituì la Comunità Europea è pur sempre il “Trattato di Roma”!

E non suoni infine come ozioso o insistito – men che meno in questi tempi per molti versi brechtianamente “oscuri” anche all’interno dei confini europei – il richiamo al ripudio del fascismo – e in generale di tutti i totalitarismi (stalinismi vecchi e nuovi ovviamente inclusi) – in seno a queste brevi considerazioni. Proprio uno dei padri dell’Europa unita, Altiero Spinelli, scriveva infatti nella sua bella introduzione a Alfred Grosser, Hitler: nascita di una dittatura, pubblicato in Italia da Universale Cappelli nel 1959: “La malattia che porta al totalitarismo non è mai di quelle malattie che si chiamano incurabili, contro le quali l’organismo colpito non può nulla. È una malattia di cui muore l’organismo che vuole veramente morire, e che rinunzia perciò a difendersi”.

*Stefano Ambrosini, professore ordinario di Diritto all’Università del Piemonte Orientale. Il suo ultimo libro, L’impresa nella Costituzione, è stato presentato ad Alba nell’aprile scorso e alcuni giorni fa nella più antica università del mondo, l’Alma Mater Studiorum di Bologna.

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