SACRO & PROFANO

Repole è già "stufo" di Torino punta a Roma (e alla porpora)

Il governo della diocesi di Torino si sta rivelando un impegno gravoso e sottovalutato, soprattutto per uno a digiuno di esperienza pastorale. Crescenti resistenze ai suoi piani di riorganizzazione. L'inamovibile mons. Fiandino. La canonizzazione di Bettazzi

Per l’Anno Santo 2025, sarebbe stata intenzione dei vertici diocesani di Torino – così come avvenne per il Giubileo del 2000 – procedere a una Ostensione della Sindone. Dalla Santa Sede pare però sia giunto un veto in quanto l'evento torinese distoglierebbe i fedeli dal convenire a Roma per un Giubileo che, si preannuncia fin d’ora, sarà un flop. Si è così ripiegato per un una mini Ostensione riservata ai giovani.

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Proseguono, nel silenzio degli uffici curiali, i sondaggi per individuare quei preti che, secondo la cerchia boariniana, sarebbero i più adatti a farsi carico di quelle parrocchie che, sempre per l’imperscrutabile giudizio della stessa, dovrebbero venire accorpate. I soggetti sondati però non soltanto non considerano per nulla il sondaggista, don Mario Aversano, ma voglio trattare direttamente con l’arcivescovo Roberto Repole al quale, magari dopo essersi tolti qualche sassolino dalle scarpe, dicono pure di no. Questo è anche il prezzo che si paga dal provenire dal clero diocesano e non – come l’antica saggezza di un tempo consigliava – da altra diocesi. Adesso sembra che l’operazione sia in corso con le parrocchie dell’arcidiocesi situate nel Canavese, dove regna l’ex astro nascente e super parroco ad vitam di Corio, don Claudio Baima Rughet. Anche qui senza troppo successo.

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Sta girando nel web il videomessaggio dell’arcivescovo Repole sul senso del teologo nella Chiesa. A parte qualche refuso di concordanza tra soggetto e predicato, viene da chiedersi la ragione e la necessità di un tale messaggio. Cui prodest?  La risposta parrebbe immediata: excusatio non petita, accusatio manifesta. Repole sa bene che, in era post-Conciliare bergogliana, la sua nomina è anomala, perché non ha mai fatto il parroco, nemmeno lontanamente. Il Presbiterio di Torino lo sa bene e spesso, nei colloqui di cui sopra, glielo ricorda. Si pensi che persino il leader intellettuale dei boariniani, il sorridente ma sempre più nervosetto monsignor Mauro Rivella, si sottopose al peso del parrocato a Chieri, pur di arrivare all’ambito zucchetto. Poi, dopo appena un anno, ne fu salvato per intercessione del cardinale Giuseppe Versaldi (noto ai più come VerSoldi), già vescovo di Alessandria e al tempo, regnante Benedetto XVI, presidente della Prefettura per gli affari economici della Santa Sede ma, soprattutto, dalla virgo plus quam potens che dal suo eremo di Vercelli intercedette presso il porporato perché si aprissero al giovane monsignore le porte dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica) dove fu nominato segretario. Peccato che poi, dopo lo scandalo Becciu, sia dovuto ritornare a Torino, con biglietto di sola andata e senza tanti complimenti, per fare il parroco di Santa Rita. Al suo posto papa Francesco insediò un laico, Fabio Gasperini, presidente di Ey Advisor che è diventato negli anni l’uomo più potente e temuto del Vaticano, colui che, più di tutti, tiene nelle sue mani i cordoni della borsa e che riferisce, senza alcun intermediario, direttamente al Santo Padre, cosa che certamente non era nelle possibilità e nelle capacità del prelato torinese.

Tornando a Repole e al video, egli deve giustificare la sua presenza al Sinodo e ricordare a tutti che non solo è arcivescovo di Torino, ma è anche teologo. Ai più attenti poi non è sfuggita la trascrizione in inglese del breve messaggio, insieme alle inguardabili maniche corte ed alla croce pettorale d’ordinanza, segni eloquenti della campagna di auto-promozione di sé stesso in vista dell’agognata porpora cardinalizia o, come ogni tanto si mormora, della prefettura di un Dicastero romano. Perché, forse “Torino mi ha già stufato” e la pastorale di una diocesi complessa si sta rivelando un onere che logora e che non aveva previsto. Purtroppo, sia Rivella che Sua Eccellenza dovranno ancora aspettare: infatti fino a dopo il Giubileo del 2025 non si muoverà nulla, quindi tocca a tutti implorare perdono per essere tutti “misericordiati”.

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La convocazione dei preti ultrasettantacinquenni della diocesi di Torino da parte dell’arcivescovo continua a far discutere e ha ferito la sensibilità di molti che, nonostante l’età, sono ancora pienamente efficienti e il cui servizio, soprattutto in tempi scarsità di vocazioni, appare prezioso. L’invito di Repole, infatti, anche se infiocchettato come suo costume da modi gentili e non tracotanti e con il sorriso d’ordinanza tipico dei boariniani, che non amano troppo la virilità dello scontro ma i modi suadenti, era molto chiaro: il vostro servizio è stato prezioso, ma adesso, in vista della nuova geografia diocesana quando i laici (e le laiche) prenderanno il vostro posto, fatevi da parte e presentate le dimissioni. «Svolgerete altri servizi» è stato il refrain episcopale. Alcuni però non ci stanno e invocano la nomina ricevuta prima della norma attuale che prevede una durata di nove anni nell’ufficio di parroco. Infatti, tutti, vescovi e parroci, «sono pregati» – rogatur – di presentare le dimissioni al compimento dei settantacinque anni, ma mentre per i vescovi l’interpretazione è resa obbligante, per i parroci lo è molto meno. L’autore della norma – recepita nel Codex del 1983 – fu Paolo VI, che aveva urgenza di rinnovare la Curia romana, ma temeva la rivolta dei parroci.

In diocesi c’è però un “parroco vip” che pare non abbia alcuna intenzione di farsi da parte: è il vescovo ausiliare emerito monsignor Guido Fiandino, auto-parroco della Crocetta. Don Guido, come ama farsi chiamare, classe 1941, è infatti scaduto, anche come parroco, da ben otto anni, ma non accenna a dimettersi diventando così l’emblema-baluardo per tutti gli ultrasettantacinquenni che resistono. Forse il buon don Guido, pensa che le dimissioni da vescovo ausiliare, presentate nel lontano 2016, possano sostituire quelle da parroco, ma pare non sia così. Tutti sanno in diocesi che, con buona pace dell’umiltà e del servizio, sempre sventolati come bandiere dagli amici di San Charles de Foucauld, Fiandino si auto-nominò, ai tempi del cardinale Severino Poletto, parroco della parrocchia più “vip” di Torino, pensando così di “sistemarsi” in vista delle dimissioni da vescovo ausiliare. Avrebbe potuto scegliere un’anonima parrocchia di periferia, ma l’umiltà e il suo spirito di servizio lo spinsero a scegliere la Crocetta. La sinistra, anche ecclesiastica, ama sempre i salotti buoni. La sua auto-nomina provocò la reazione della Congregazione per i vescovi che intervenne segnalando a Poletto che, senza il permesso della Santa Sede, non si poteva affidare una parrocchia ad un vescovo. Messo davanti al fatto compiuto, il cardinale, non se la sentì di dare un dispiacere al riconosciuto referente del clero progressista. Non è infatti un caso se – nonostante il suo perenne sorriso con l’esclamazione «che bello!» per cui è famoso in diocesi – un anziano prete, già esorcista diocesano, ha affermato più volte che «Fiandino è l’anima nera della diocesi».

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Martedì scorso è stato reso noto dalla Sala Stampa della Santa Sede l’Instrumentum Laboris della seconda sessione della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi che si terrà in ottobre e su cui torneremo. Da alcune dichiarazioni di papa Francesco – anche piuttosto perentorie – era parso che la porta all’ordinazione diaconale delle donne fosse sbarrata. Ma ormai si sa che con lui le sorprese e i dietrofront sono sempre dietro l’angolo. Al punto 17 del documento viene detto che, pur essendo il tema non all’ordine del giorno, «è bene che prosegua la riflessione teologica, con tempi e modalità adeguati. Alla sua maturazione contribuiranno i frutti del Gruppo di studio n.5, il quale prenderà in considerazione i risultati delle due Commissioni che si sono occupate della questione in passato». Insomma, si può ancora sperare...

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Sta iniziando, ad appena un anno dalla sua scomparsa e dopo che era già da tempo iniziato in vita, il processo di «canonizzazione» post mortem di monsignor Luigi Bettazzi. Nella sua biografia – non quella di natura agiografica presentata in questi giorni al Polo del 900 – non manca nulla, compresa l’ipotesi che l’embrione non sia automaticamente persona, la proposta di scioglimento della Nato, il patronage ai “cristiani per i socialismo”, la scomunica al Vaticano per aver scomunicato i comunisti e l’immancabile firma in calce a tutti gli appelli della sinistra. Quello che però caratterizzò fin da subito l’antico ausiliare del cardinale Lercaro, fu soprattutto la lettura ideologica del Concilio a cui pure partecipò come vescovo, ma con un ruolo certamente minore di quello avuto da un certo Joseph Ratzinger, per cui il suo Concilio era quello dei  desideri di una minoranza ristretta che per affermarsi fece propria quell’ermeneutica della rottura e della discontinuità deplorata da Benedetto XVI, perché affermare che San Paolo VI e San Giovanni XXIII abbiano congelato il Concilio è né più né meno un’accusa d’infedeltà al mandato di servire la Chiesa attraverso il munus petrino. Tra gli agiografi del “vescovo rosso” è frequente attribuirgli il titolo di “profeta”. E profetico lo fu veramente quando nel 2012 predisse, nello stupore generale, che di lì a pochi mesi Benedetto XVI si sarebbe dimesso. Evidentemente, dalla “Mafia di San Gallo” di cui era magna pars il suo sodale e corregionale, il cardinale Achille Silvestrini, regista di tutte le trame progressiste, qualcosa era filtrato.

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Traditores Custodes

Nella lotta implacabile contro la Messa antica si distinguono due prelati piemontesi. Il primo, il più importante per il ruolo che ricopre, è il biellese monsignor Vittorio Viola, arcivescovo segretario del Dicastero per il culto divino il quale, mentre tutti i giorni e in tutto il mondo si commettono nella liturgia abusi innominabili, perseguita senza posa la celebrazione della Messa antica, come se essa fosse opera di blasfemia. Incoraggiato in questo dal cardinale Pietro Parolin che in una riunione avrebbe detto che la Messa «di sempre» dovrà essere estirpata «per sempre». Chissà che per tanto zelo non gli arrida quella porpora che il suo maestro, monsignor Annibale Bugnini – di cui porta l’anello episcopale – non ebbe, anzi fu repentinamente cacciato da Paolo VI in Iran; qualcuno dice perché affiliato alla massoneria o forse, molto più verosimilmente, perché papa Montini scoprì troppo tardi di essere stato ingannato sulla riforma liturgica dal suo autore. A Tortona, monsignor Viola era denominato – per la sua propensione alla commozione – “una lacrima sul viso”, adesso a Roma, in contrapposizione al todos, todos, todos di papa Francesco, il suo soprannome è nada, nada, nada.

Diverso il profilo del valsusino monsignor Renato Boccardo, classe 1952, ordinato nel l977 e avviato a una brillante carriera diplomatica nelle rappresentanze pontificie in Bolivia, Camerun e in Francia da dove, nel 1998, fu richiamato misteriosamente a Roma e spedito a fare il cerimoniere di Giovanni Paolo II. Il quale, nel 2003, lo ordinò vescovo mentre Benedetto XVI, nel 2009, lo nominò arcivescovo di Spoleto-Norcia. Ed è proprio nella patria di San Benedetto che monsignor Boccardo si incontrò con la comunità dei monaci benedettini fondata nel 1999 da dom Cassian Folsom, liturgista e professore presso l’Ateneo di Sant’Anselmo. Esemplari sotto tutti gli aspetti, specialmente dopo il terremoto che distrusse il convento e li costrinse, dopo anni di precarietà, a costruirne uno nuovo, i monaci avevano il difetto, agli occhi del prelato valsusino, convertitosi al verbo progressista, di vivere la regola benedettina più stretta e di celebrare convintamente il Vetus Ordo, attirando a Norcia sempre più giovani fedeli. Di qui – se non l’ostilità – la freddezza nei confronti di una bella realtà che attira vocazioni e fedeli e questo senza che mai i monaci abbiano mai manifestato alcun dissenso. Il 30 maggio scorso, dopo due secoli, il monastero di San Benedetto in Monte, è stato elevato ad abbazia e il 15 giugno, davanti a una grande folla, è stato inaugurato il nuovo edificio, mentre il 29 giugno, dom Benedetto Nivakoff, ha ricevuto la benedizione quale nuovo abate di Norcia. Ai due storici eventi, che segnano anche la sua rinascita dopo il terremoto, il vescovo locale ha ritenuto bene di non essere presente. Con Roma non si può mai sapere... 

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