SCENTRATI

Azione diversiva (sul Pd) di Calenda. Sotto accusa il terzopolista Costa

Il Churchill dei Parioli chiude la Direzione Nazionale con l'ennesima supercazzola, ma guarda sempre più a sinistra. Il deputato piemontese sul banco degli imputati per la sua iniziativa con il renziano "eretico" Marattin. Gelmini e Carfagna verso l'uscita

“Costruire un’area centrale, liberale e popolare della ragionevolezza contro lo scempio a cui assistiamo per cui la politica è ridotta a uno scontro continuo che non produce niente, anzi provoca immobilismo e declino”. Pochi, forse nessuno, s’illudevano di evitare l’ennesima supercazzola di Carlo Calenda a conclusione della direzione nazionale di Azione. E, infatti, così è stato.

Il Churchill dei Parioli ha definito così la linea in un partito dove, nonostante le non ciclopiche dimensioni, la domanda tanto diffusa quanto senza risposta è proprio sulla prospettiva politica. Mandato in frantumi il Terzo Polo, pregiudiziali contro i Cinquestelle non di rado derogate, ammiccamenti al Pd, distinguo su questo e accordi su quest’altro, insomma se c’è una cosa poco chiara agli stessi dirigenti, per non parlare degli iscritti, è proprio l’obiettivo e non meno il percorso. I (som)movimenti interni, sempre meno nascosti, sono la conferma del tormentato clima all’interno di Azione e alcuni accadimenti nel corso della stessa riunione dell’altro giorno ci hanno messo il sigillo.

Un appuntamento, quello partecipato dal centinaio di componenti l’organismo, sul quale avevano puntato l’attenzione (e le speranze deluse) quei parlamentari approdati ai lidi calendiani dopo aver lasciato le per molti anni amate sponde berlusconiane. Per loro, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini per fare due nomi tra i più noti, il timore era ed è “che Carlo voglia svoltare a sinistra”. Una direzione, nel senso di verso, che il leader al di là degli esercizi retorici non è riuscito e forse voluto escludere con nettezza neppure l’altro giorno, dove come si diceva non sono mancati passaggi più eloquenti delle frasi del segretario. 

Il più eclatante è la sorta di processo cui è stato sottoposto – quasi una nemesi considerando il suo profilo ultragarantista e le battaglie contro le distorsioni della giustizia – Enrico Costa. A giudizio (sommario) di un plotone di “azionisti”, il parlamentare piemontese nonché vicesegretario nazionale del partito sarebbe colpevole di tradimento per la nota iniziativa intrapresa da tempo con il collega deputato di Italia Viva e renziano “eretico” Luigi Marattin per la realizzazione di una forza politica di centro, più realisticamente un tentativo di rifondare il naufragato Terzo Polo su altre basi e con altri attori. 

Non è un mistero che i due siano stati i più convinti assertori di quell’esperienza e i più contrari alla sua distruzione per mano dei due leader dei rispettivi partiti. I loro incontri pubblici, in coppia in lungo e in largo per il Paese, a trattare di temi economici, di giustizia e naturalmente di politica non sono digeribili a tutti, incominciando dall’interno di Azione. Tant’è che per questa ragione a Costa, i suoi detrattori interni, avrebbero messo davanti una asserita incompatibilità con il ruolo di vicesegretario. La risposta non è tardata ad arrivare nel duro intervento del deputato monregalese il quale non ha rinunciato a evidenziare ciò che a suo avviso non va nelle linea politica e nelle scelte degli ultimi tempi, incominciando da più di un’alleanza per le regionali e quella rottura del Terzo Polo dei cui esiti nefasti egli era stato facile, ma inascoltato profeta. Per quanto paradossale possa sembrare, non è chi è stato responsabile della decisione suicida di mandare a monte il listone unico centrista alle Europee a finire sul banco degli imputati ma chi fino all’ultimo ha tentato di scongiurare la rottura.

“Se il problema è il mio ruolo da vicesegretario, sono pronto a dimettermi”, ha in sostanza detto Costa con la chiarezza che gli è propria. Da lì in avanti per qualche ora è stato un rincorrersi di messaggi in chat interna in cui si annunciavano le dimissioni, che in verità erano solo state messe sul tavolo. Tant’è che finita la direzione è lo stesso Calenda a prenderlo da parte dicendogli: “Guarda che io non le ho mica accettate, le tue dimissioni”. In compenso, fedele interprete del cavouriano “un sigaro toscano e un titolo di cavaliere non si negano mai a nessuno, il segretario ha nominato ulteriore suo vice la napoletana Francesca Scarpato, già alla guida del partito nella provincia partenopea. 

Le dimissioni che Costa era pronto a rassegnare, ma non accolte dal Calenda, sembrano essere durate lo spazio di una pur alacre sarabanda di messaggi e auspici di taluni, ma questo non significa affatto l’assenza di problemi e travagli nel partito. E non è affatto detto che alla fine Costa decida per coerenza di togliere il disturbo. Anzi. I maldipancia degli ex di Forza Italia restano, eccome, addirittura rafforzati dall’ingresso nella coalizione per le elezioni regionali in Emilia-Romagna dove a dispetto del no al campo largo di Calenda, si prospetta una prateria. E l’attento e perfido Costa non perde l’occasione di commentare un articolo sull’alleanza emiliano-romagnola con un lapidario: “Mamma mia”. Come lui, altri arrivati in Azione non dal Pd paiono sempre più convinti e allarmati del fatto che l’atteggiamento del segretario – tra un traccheggiare e una dissimulazione – porti Azione all’abbraccio con il Pd, allungando i tempi (e il brodo) fino a farlo diventare inevitabile. Storia vecchià, già vista in tante occasioni, anche alle comunali di Torino. Una strada che gli ex azzurri, come Gelmini e Carfagna e lo stesso Costa, non intraprenderebbero mai vedendo anche sconfessata la ragione della nascita della stessa forza politica, ovvero agire in posizione terza e non quarta o quinta gamba di Elly Schlein.

In questa prospettiva si assisterà a ritorni alla casa madre da parte degli ex azzurri? Qui entrano in gioco veti non dichiarati o porte aperte. Su Carfagna peserebbe la fatwa di Antonio Tajani, mentre per Gelmini si annuncerebbero duri tempi da Lupi, inteso come Maurizio suo storico avversario in Lombardia. L’ex ministro di origine ciellina non è di Forza Italia, ma la sua voce da alleato è molto ascoltata da quelle parti. Con lo stesso Tajani ci sono vecchie ruggini, acuite durante il governo Draghi, soprattutto per la decisione del vertice berlusconiano di staccare la spina all’allora inquilino di Palazzo Chigi. Ci potrebbero essere svolte ancora più decise, addirittura verso Fratelli d’Italia. Voci in tal senso circolano, ma al momento sono tali anche se nessuno esclude abboccamenti.

Nessun veto invece su Costa, il quale per ora non pare aver alcune intenzione di muoversi anche se le porte di Forza Italia per lui sarebbe aperte in vista di un ritorno. Pochi lo ricordano, ma l’attuale vicepremier e segretario di FI fu assistente parlamentare di Raffaele Costa e del figlio Enrico ha sempre tessuto pubblici elogi. Inoltre, qualora decidesse di intraprendere la strada del figliol prodigo, c’è da scommetterci, a costruire il ponte (d’oro) sarebbe prontissimo un esperto pontiere come Alberto Cirio, legato al deputato di Mondovì da antica epper quanto  “dialettica” amicizia. In più per il rieletto governatore del Piemonte sarebbe l’occasione per risolvere anche la questione della sua lista civica con Forza Italia di cui è vicesegretario nazionale. Lista che ha avuto in Costa uno degli architetti principali e che ha visto eleggere con il record di preferenze il cuneese Marco Gallo, suo fedelissimo oggi assessore e un altro consigliere espressione di Azione.

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