SACRO & PROFANO

Punto cardinale di Bergoglio, Repole studia da anti Zuppi

Una carriera fulminea per il sacerdote torinese che in soli due anni è passato da semplice professore di teologia a vescovo. E ora con addosso la berretta rossa rappresenta un temibile contraltare dell'ambizioso presidente della Cei. Mentre nella diocesi di Torino...

L’annuncio dell’ingresso di monsignor Roberto Repole nel Collegio cardinalizio dato dal Santo Padre domenica scorsa, non ha suscitato grandi sorprese perché era da tempo nell’aria. Fra i vaticanisti si era sparsa la voce della nomina già domenica 1° settembre, tanto che uno di loro, corrispondente di un grande quotidiano romano, aveva persino interrotto le ferie. L’elenco è mutato poi più volte e doveva comprendere anche l’arcivescovo di Napoli, monsignor Domenico Battaglia, che poi è stato inspiegabilmente depennato. Come lo Spiffero ha più volte avuto modo di spiegare, la ragnatela tessuta da don Repole per la propria ascesa – fatta soprattutto di una incessante attività di conferenziere più che di memorabili testi di teologia – ebbe un insperato colpo di fortuna quando fece da coordinatore ad una “collanina” di saggi sulla “teologia di papa Francesco” e che Benedetto XVI definì “libretti”, rifiutandosi di presentarli, in quanto assai distanti dalla sua teologia. Di converso, la cosa attirò, ovviamente, l’apprezzamento di papa Francesco non senza l’astuta collaborazione di monsignor Dario Edoardo Viganò, vero alter-ego a Roma di monsignor Mauro Rivella. Il papa trovò così in Repole il suo teologo: quello della teologia debole e della Chiesa umile, secondo i detrattori destinata a sparire dalla storia. Tanto alle “maniere forti” ci avrebbe pensato lui. Arrivò così per Repole l’agognata nomina ad arcivescovo di Torino e la partecipazione al sinodo, facendosi anche fama di moderato, come volle dimostrare nella disputa con Vito Mancuso.

Ora giunge la porpora cardinalizia che lo vedrà – lo si voglia o no – sempre più lontano da Torino, impegnato a Roma e in giro per il mondo; le due diocesi di Torino e Susa peseranno così sulle spalle dell’ausiliare e di quello che tutti dicono sia in definitiva il “vescovo ombra” nelle scelte importanti, e cioè l’eminenza, non cardinalizia ma grigiastra, del parroco di Santa Rita ed economo diocesano: “l’eterno monsignore” Mauro Rivella. Questi, insieme al vescovo di Asti, monsignor Marco Prastaro, rappresenta il cuore del gruppo boariniano. E allora perché non chiedere un nuovo ausiliare? Siamo ragionevolmente certi che questa potrebbe essere la volta buona, anche se forse potrebbe risultare umiliante per Rivella diventare solo “secondo” vescovo ausiliare. Meglio il secondo nelle Gallie, che nulla a Roma? Com’è noto poi “l’umile ingordigia boariniana” non ha né limiti e né confini.

Certo rimane un grande mistero: quello della carriera più che fulminea di Repole, in soli due anni (19 febbraio 2022-6 ottobre 2024) è passato da semplice professore di teologia a cardinale. Queste accelerazioni non sono “normali”, e hanno sempre solo due radici: il potere delle lobby o il potere degli improvvisi (e fatui) innamoramenti bergogliani. Escluderemmo la seconda per ovvie ragioni. Ancora una volta Bergoglio crede di avere nominato nel collegio cardinalizio i “suoi e solo i suoi”, e in fondo è così; ma quando l’unità e la fedeltà non sono radicate nella verità, durano come un gatto in tangenziale. Ben altra cosa sarà, a suo tempo, la lotta senza quartiere del conclave, dove chi entra papa esce cardinale. Adesso Matteo Zuppi dovrà misurarsi con un collega che è moto più preparato di lui, parla italiano non sbagliando i congiuntivi e non è apparentemente identificabile con alcuna realtà. Riuscirà Sant’Egidio a far dimenticare queste differenze?

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Come si è detto, dei nuovi cardinali si può dire unanimemente che il papa abbia nominato solo ed esclusivamente suoi fedelissimi, dimostrando che il vero difetto di questo pontificato è quello di non tenere in alcun conto l’unità della Chiesa, che è invece il primo servizio che deve rendere Pietro al Corpo Mistico di Cristo, che deve procedere tutto insieme e non per fazioni. Ciò non toglie che ogni papa abbia un suo programma e una sua linea ecclesiologica con il pieno diritto di perseguirla e realizzarla, ma tenendo conto di tutte le sensibilità. In proposito, valgano gli esempi di San Paolo VI che fece cardinali uomini come Silvio Oddi, Antonio Samorè, Pietro Palazzini o come San Giovanni Paolo II che, nel 2001, dopo aver annunciato alla finestra i nomi dei nuovi cardinali, dovette tornarvi la domenica successiva per aggiungervi, a seguito delle proteste dei progressisti tedeschi, quello del vescovo di Magonza, Karl Lehmann, già assistente di Karl Rahner e noto, insieme a Walter Kasper e Jorge Bergoglio – creati anch’essi in quel concistoro – per le sue posizioni avanzate e nient’affatto in linea con Roma. Per non parlare di Benedetto XVI che nominava vescovi i teologi progressisti che firmavano i documenti contro di lui. Sarebbe mai immaginabile da parte di Bergoglio un atteggiamento simile, magari facendo cardinale monsignor Athanasius Schneider? Vediamo, per fare alcuni esempi, fra i nuovi cardinali, alcune fattispecie. Il continente più penalizzato è anche il più vivo e foriero di vocazioni ed è l’Africa e qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si tratti di una vendetta contro i vescovi africani contrari a Fiducia Supplicans. È stato invece premiato il vescovo bianco della piccola diocesi di Algeri (4mila anime), monsignor Jean-Paul Vesco, che ha il tipico profilo del curatore fallimentare francese e che ha fatto dello smantellamento della diocesi il suo programma pastorale affermando perentoriamente: «Dobbiamo liberarci dall’idea che dobbiamo evangelizzare». Ma il nome più discusso è stato quello dell’ex Maestro Generale dei Domenicani, il britannico padre Timothy Radcliffe, uno dei teologi pro lgbt più conosciuti nella Chiesa e fautore dell’ordinazione sacerdotale di persone con tendenze omosessuali. Nel 2012 padre Radcliffe scrisse sul Guardian come fosse «incoraggiante vedere l’ondata di sostegno ai matrimoni gay. Mostra una società che aspira ad una tolleranza aperta verso tutti i tipi di persone».

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La parentesi “cattolica” di Francesco in Belgio è stata come una meteora ma ha dimostrato che, quando vuole, egli sa sfoderare gli artigli e dire al mondo quello che rifiuta di sentire. All’Università cattolica (?) di Lovanio il papa ha avuto accenti quasi ratzingeriani e di fronte al rettore che lo aveva contestato  rinfacciandogli di aver difeso gli insegnamenti della Chiesa ha detto che «siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità» aggiungendo poi, per ribadire il concetto: «Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole (il dramma del pensiero debole!) nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo». All’Università cattolica francofona si è poi verificato un vero agguato con la lettura non prevista di una lettera critica di studenti e docenti su donne e omosessualità. Sull’aereo di ritorno Bergoglio ha manifestato la sua irritazione spiegando che il comunicato successivo al suo discorso «è stato fatto mentre io parlavo. È stato pre-fatto e questo non è morale». Un atto offensivo, se solo si tiene conto che l’anziano pontefice, reduce da un lungo viaggio oltreoceano, pur sofferente, aveva voluto andare in Belgio lo stesso, dove era stato invitato per i 600 anni dell’Università. Qualche cronista ha però rilevato come mentre il papa parlava, a significare la distanza che separa sempre di più i vecchi cattolici scettici e cinici dalle nuove generazioni,  studenti delle due università fuori lo applaudivano.

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