La dittatura woke

Alcuni consiglieri comunali esponenti del Cup, partito di estrema sinistra di Barcellona, dopo aver denunciato che “Cristoforo Colombo diede inizio al genocidio contro le popolazioni indigene americane da parte dei colonizzatori”, hanno richiesto l’immediata rimozione della statua dedicata all’esploratore genovese eretta alla fine di una delle strade più celebri e frequentate della città catalana: la Rambla. Il comportamento di questi consiglieri spagnoli rappresenta la “cartina al tornasole” del progressivo diffondersi di modelli culturali che nel mondo angloamericano chiamano woke che indica l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia. Questo atteggiamento è da ricercarsi, secondo il sociologo e critico americano Philip Rieff, nella perdita del “senso del passato” con la conseguente rottura della continuità culturale e la diminuzione della capacità degli adulti di fungere da modello per i giovani. Il sociologo inglese Frank Furedi aggiunge che ogni movimento modernista, pur avanzando “una visione utopica di un mondo fondamentalmente riprogettato secondo principi scientifici”, in pratica si indirizza verso “l’obiettivo più modesto di ottenere il controllo sul processo di socializzazione”. Infine, “il modo più affidabile per cambiare la cultura e sostituire i valori tradizionali con quelli moderni” è quello di influenzare gli atteggiamenti dei giovani. Poiché il woke è sostenuto dal soft power americano, ovvero dalle organizzazioni dei media (Netflix, Mtv e Big Tech), che hanno grande abilità nel creare consenso attraverso la persuasione e non la coercizione, l’influenza sui giovani è cresciuta. “Ecco perché alla fine, la lotta per l’anima dei giovani è decisiva”.

Il termine “woke” non è letteralmente traducibile in italiano se non con espressioni che rientrano nello stesso campo semantico, come “politicamente corretto”. L’espressione “politicamente corretto” deriva da quella angloamericana “politically correct” che designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, al fine di evitare ogni potenziale offesa. Secondo tale orientamento, quindi, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, sia nella forma linguistica sia nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o di disabilità fisiche e psichiche delle singole persone. Anche in Italia questa cultura del “politicamente corretto” si sta sempre più diffondendo nelle televisioni, sui giornali e soprattutto nei cosiddetti salotti “radical chic”, cioè in quegli ambienti i cui frequentatori, come definito sull’Oxford Dictionary, ostentano, per moda, le opinioni della sinistra radicale o, come da dizionario Treccani, per moda o convenienza, professano idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali. Se si estendessero gli ambiti, radicalizzando all’estremo l’osservanza del “politicamente corretto”, si inizierebbe un processo di impoverimento del linguaggio scritto, parlato e figurativo (teatro, cinema, pittura ecc.) fino a condurci alla sostanziale incapacità di esprimere le idee, all’incomunicabilità e alla “morte” della dialettica hegeliana.

Il filosofo tedesco Hegel, infatti, sosteneva che la realtà è un costante divenire, un processo dialettico sempre in corso come necessario confronto fra due momenti opposti: Tesi e Antitesi, dove Tesi è l’affermazione di qualcosa e Antitesi è la sua negazione. Dal loro confronto scaturisce la Sintesi, ovvero ciò che ricompone le differenze in una nuova unità superiore ai due momenti prima separati. La Sintesi, che Hegel definisce in tedesco con il termine Aufhebung, che significa “superare conservando e togliendo”, è il conservare quanto espresso dalla tesi e dall’antitesi ed il togliere ciò che prima le separava. Il fondamentalismo politically correct, negli Usa, è arrivato a bandire l’Odissea di Omero dalle scuole. È successo nel Massachusetts con l’utilizzo di un hashtag che promuove la cancellazione della cultura classica dalle scuole. Gli insegnanti che sostengono il sito affermano che i loro alunni non dovrebbero leggere storie scritte in altre epoche, specialmente quelle “in cui il razzismo, il sessismo, l’antisemitismo e altre forme di odio sono la norma”. Tra i testi accusati il romanzo di Nathaniel Hawthorne “La lettera scarlatta” e il ben più noto “Odissea” di Omero considerato poema razzista e non al passo con i tempi.

Lo scrittore di fantascienza Jon Del Arroz al Wall Street Journal spiega: “È una tragedia che questo movimento anti-intellettuale per la cancellazione dei classici stia guadagnando terreno tra gli educatori e l’industria editoriale tradizionale. Cancellare la storia delle grandi opere limita solo le capacità dei bambini”. Questi insegnanti antirazzisti si sono dati come obiettivo la creazione di un programma “più inclusivo”, rappresentativo ed “equo” perché “tutti gli studenti meritano un’istruzione che includa la ricca diversità dell’esperienza umana”. Il problema dei politicamente corretti è che si ostinano ad applicare criteri etici di oggi ai fatti storici del passato. E di solito questo è sinonimo di fondamentalismo. La profezia di George Orwell in “1984” prende corpo: applicare la damnatio memoriae, eliminare da ogni dove tutto ciò che fa riferimento ad un sovversivo: “Ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione”.

Fa riflettere quanto ha scritto sul tema Vincenzo Zeno Zencovich, professore di Diritto Comparato (Università Roma Tre), nell’articolo “Come il “politicamente corretto” sta uccidendo il pensiero critico e con esso il liberalismo” pubblicato dalla Fondazione Magna Carta da cui estraggo alcune frasi: “La forza – e allo stesso tempo la debolezza – del pensiero liberale è quella di essere intriso di dubbi, il che lo porta, in un perpetuo mobile, a mettere costantemente in discussione quelli che sembrano essere i suoi punti fermi. (…) Il liberalismo nasce dal dissenso nei confronti del dogmatismo (…). Il “politicamente corretto” è precisamente una forma di dogmatismo, sempre più distruttivo del pensiero liberale perché cresce su un terreno liberale (o pretende di avere radici liberali), ma corrompe il suo senso e tradisce il suo significato intimo. Trasforma un metodo aperto in un credo chiuso. Vede coloro che pensano – ripeto, pensano – in modo diverso come i nemici con i quali bisogna ingaggiare un combattimento mortale. Usa i metodi illiberali più tipici: etichettare i suoi avversari, qualificarli come inadatti per una società civilizzata, meritevoli di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto. (…) Da un lato si promuovono società multiculturali/multietniche, ma dall’altro non si possono indicare preferenze perché questo è, esplicitamente o implicitamente, razzista. (…) Il “politicamente corretto” non considera che nell’ordine mondiale – che ci si trovi un millennio a.C. o due millenni d.C. – ogni qualvolta vi sia un vuoto di potere questo venga riempito da qualche altro potere. Da questo punto di vista il “politicamente corretto” è molto simile al populismo. (…) Ciò che il “politicamente corretto” non riesce a comprendere è che la democrazia sia il risultato di un bilanciamento estremamente complesso di valori concorrenti, che accettano di essere limitati affinché tutti possano vivere e prosperare. La reciprocità è fondamentale: ma se questa viene respinta, chiaramente l’intolleranza prevarrà sulla tolleranza; e l’intolleranza richiamerà maggiore intolleranza da parte di altri gruppi. (…) L’obiezione principale al “politicamente corretto” da un punto di vista liberale è che limita una libertà faticosamente e dolorosamente conquistata dopo secoli di oppressione e repressione: quella dell’espressione. Se si va al cuore del “politicamente corretto”, il suo primo obiettivo è mettere a tacere il modo in cui le idee vengono espresse, presentate, rappresentate, narrate. (…) Gli individui politicamente corretti tendono a considerare abbastanza irrilevanti quali possano essere le conseguenze delle loro azioni – e delle loro parole. La libertà di espressione vale per loro, non per i loro oppositori. In particolare, i gruppi minoritari non tengono conto del fatto che un numero considerevole – se non la maggioranza – di cittadini può essere contrario alle loro opinioni ed esprimerà tali opinioni in modo democratico: votando per coloro che sostengono posizioni anche estreme nella direzione opposta. L’estremismo richiama l’estremismo. (…) A lungo termine i sostenitori del “politicamente corretto” potrebbero anche avere ragione, ma si dovrebbe ricordare ciò che John Maynard Keynes disse: “Nel lungo termine saremo tutti morti” (e il liberalismo lo sarà con noi)”.

Una comunicazione “politicamente corretta” diminuisce le divergenze tra le persone ma ne appiattisce la dialettica. Tutti saremo indotti ad allineaci alla nuova cultura comunicativa, una cultura egemone non per la dimensione statistica ma per il peso economico di chi la diffonde. Mentre le persone con maggiori dotazioni culturali potranno meglio difendersi dai nuovi profeti woke, le fasce più deboli della società, quelle che i nuovi profeti della comunicazione dichiarano di voler proteggere, saranno maggiormente condizionate. Ogni persona deve poter comunicare con i mezzi culturali di cui dispone dicendo tutto quanto pensa con tutta la forza espressiva necessaria ma con rispetto ed educazione e con il vincolo di non prevaricare con prepotenza e violenza gli altri interlocutori. La diffusione del woke e del politicamente corretto è un “attentato” alla democrazia da parte di alcune “classi” che si credono egemoni per “status” acquisito, se non per nascita. Ovviamente nulla di nuovo sul pianeta. È la solita prassi di chi, ritenendo di sapere quello che è bene e male per i cittadini, finisce per diventare un autocrate se non un vero e proprio dittatore!

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