PIAZZA CASTELLO

Con Cirio vince l'orgoglio barotto

Il neo presidente della Regione rivendica radici e identità che affondano nella provincia piemontese. Langhetto d'Alba, coltiva nocciole e preferenze. Quella finta soggezione verso il capoluogo nasconde la diffidenza verso l'establishment subalpino

“Mi mancava un pugno di voti, erano le sei del mattino e mi accorgo che non c’erano quelli di Priocca d’Alba, chiamo il sindaco e lui mi dice: Alberto i tuoi sono centosessantuno. Bastavano, ero eletto. E avevo anche battuto la Zanicchi”. In quel ricordo dell’elezione che lo portò al Parlamento europeo, Alberto Cirio infila con genuina ma non ingenua naturalezza due ingredienti – il piccolo paese delle Langhe e la cantante nazionalpopolare assurta pur meteoricamente alla politica – che se mancassero sarebbe come togliere l’aglio e l’acciuga alla bagnacauda.

Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, Torino per il politico arrivato dalla campagna è come la Genova di Paolo Conte, ma lui non si è fatto inghiottire né ha mai avuto il timore che potesse succedere, pur lasciandolo pensare con quella astuta dissimulata furbizia che solo la provincia possiede. E che è una delle principali ragioni del successo del quarantaseienne, figlio di una maestra e di un ragioniere impiegato alla Fiat, nato sotto la Mole dove si è laureato in giurisprudenza, ma langhetto fino al midollo con quel profumo di trifola che annunciava il suo arrivo, con le tasche piene, ad Arcore e quel fare mai sopra le righe. Studiatamente quel tanto dimesso che non guasta come sa fare, anzi essere, chi preferisce suggerire la sua soggezione ai cittadini sapendo che alla fine, al banchetto del mercato, quello che fa l’affare è lui. Perché la merce è buona, ma anche perché saggio e astuto lasciar pensare a chi compra che è lui il più astuto, anche se non sempre è vero.

Non era del tutto vero che Cirio avrebbe pagato non solo una minore notorietà rispetto a Sergio Chiamparino, ma anche quel non essere di Torino, pur essendovi nato e avendovi dedicato con sforzo e passione le ultime settimane di campagna elettorale. Lui, quasi certamente, lo sapeva ma ha fatto finta di crederlo, giocando con abilità quel ruolo di chi non si mette in contrapposizione alla città, ma anzi a tratti gioca abilmente con una dosata, quanto finta, soggezione. Ha sempre saputo come l’essere provinciale lo avrebbe aiutato in quel Piemonte che guarda al capoluogo con diffidenza, a distanza e da esso prendendo le distanze. La stessa che lui ammette separare i gusti musicali di uno dei due figlioli, Carolina di 9 anni che va pazza per i Maneskin, dai suoi, confessando la sua passione per Al Bano. Terra e provincia, tradizione e popolo.

E understatement fieramente contadino, piuttosto che elitariamente sabaudo. “Ma io sono un langhetto” e via col sorriso che non ha mai perso del tutto, come la calma, nemmeno nei momenti più difficili. Prima l’inchiesta sulla Rimborsopoli per la quale il pm chiederà l’archiviazione e poi, anzi contemporaneamente, quell’infinita attesa dell’investitura ufficiale che mai sembrava dovesse arrivare.

Non una dichiarazione avventata, non una corsa in avanti mentre la Lega frenava con un’azione di logoramento che ad altri avrebbe fatto saltare i nervi. Non a lui, in paziente attesa come si aspetta il momento giusto per la vendemmia, sperando che non arrivi la grandine. Anche l’eccessivo passo indietro tenuto, non solo metaforicamente, rispetto a un debordante Salvini racconta il Cirio che è e il Cirio che probabilmente sarà al vertice della Regione: consapevole della necessità (talvolta sovrastimata) di non disturbare il conducente del Carroccio lungo la strada verso il voto e pronto a rispettare, forse troppo ma questo lo si vedrà, le indicazioni e le richieste dell’azionista di maggioranza della coalizione.

Una moglie, Sara, psicoterapeuta, una sorella direttore di Confindustria della Granda, due figli, due tartarughe, due cani, due gatti. Il borgo delle origini, Sinio, dove c'è la casa avita e al cimitero riposa gran parte della famiglia. La messa domenicale, le chiacchiere sul sagrato del Duomo, il Venerdì santo trascorso da anni a Medjugorie. E l’azienda agricola cher produce la Tonda Gentile, specie pregiata di nocciola. Un quadro agrestre del profondo Piemonte.

Il politico di provincia che mosse i primi passi nella Lega di Umberto Bossi, dell’ampolla a Pian del Re e della devoluscion, passato in fretta nei ranghi azzurri e dalla poltrona di vicesindaco della sua Alba a quella di assessore regionale allo Sport e Turismo con la giunta del leghista Roberto Cota, rappresenta forse più di chiunque altro suo predecessore (compreso lo stesso Cota, arrivato da Novara) l’approdo della provincia al vertice del Piemonte. La rivincita orgogliosa del barotto, vien da dire. Senza dimenticare quel Carroccio che fin lì lo ha portato.

Ottimo e consolidato rapporto di amicizia con l’ex ministro Enrico Costa, mai incrinato neppure quando il titolare del feudo di Mondovì lasciò Berlusconi per Alfano, per poi tornare alla casa madre arcoriana. Altro nume tutelare è Guido Crosetto, padrino di battesimo del figlio Emanuele, oggi tredicenne, “Nel Pdl la mia stella polare è Berlusconi e subito dopo c’è Guido”, disse un giorno, anni fa. Nulla da allora è cambiato tra i due, a parte la via imboccata dal gigante di Marene insieme a Giorgia Meloni. Per lui, il politico che indulge a mostrarsi argutamente un tantino paculin, da oggi cambia molto. E molto, è logico pensare che cambierà per il Piemonte: cosa e come dipenderà da lui e da quanto lui saprà gestire il rapporto tra alleati e il suo margine di autonomia da essi, soprattutto dalla Lega. Cambierà, naturalmente, anche per Chiamparino: la vittoria, forse intravista per qualche istante dall'ormai ex presidente candidato per un centrosinistra rivelatosi troppo debole, è stata solo un lampo giallo al parabrise.

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