SACRO & PROFANO

Nosiglia vuole restare fino a gennaio, "patto delle catacombe" in diocesi

Il vescovo ha chiesto di poter presenziare stando ancora in carica all’incontro europeo di Taizé di fine anno. Una nuova corrente "progressista", riedizione della celebre componente conciliare. Sconcerto per la stretta papale sulla messa tridentina

Voci romane, ma soprattutto diocesane, insistono nel sostenere che il Papa non nominerà il successore di monsignor Cesare  Nosiglia sino a gennaio 2022. Il motivo sarebbe dovuto alla richiesta e alla volontà di quest’ultimo di essere presente, come arcivescovo di Torino, all’incontro europeo di Taizé che avrebbe dovuto tenersi nel capoluogo subalpino all’inizio di quest’anno ma che, causa Covid, dovrebbe svolgersi da martedì 28 dicembre a sabato 1 gennaio 2022.  Per Nosiglia, sempre più impegnato come sindacalista, il raduno concluderebbe così in bellezza – si fa per dire – il suo episcopato. Egli è infatti un grande estimatore della comunità ecumenica monastica internazionale fondata nel 1940 da Roger Schutz (1915-2005), da tutti conosciuto come frère Roger, nel villaggio di Taizé in Borgogna nei pressi di Cluny. La comunità si sviluppò soprattutto negli Anni Sessanta e attrasse migliaia di giovani alla ricerca di una spiritualità che la Chiesa e le confessioni cristiane non riuscivano più a soddisfare; famose diventarono da allora le liturgie celebrate e i canti meditativi. Dal 1978 la comunità organizza annualmente un incontro chiamato “Pellegrinaggio di fiducia sulla Terra” in una metropoli europea.

Roger Schutz, figlio di un pastore calvinista svizzero e lui stesso pastore riformato, fu ucciso il 16 agosto 2005 da una squilibrata durante una preghiera pubblica serale. Dopo la sua morte, si diffusero varie indiscrezioni su di una sua conversione al cattolicesimo, sempre smentite dalla comunità e dai cattolici progressisti, primi fra tutti Enzo Bianchi. Sta il fatto che il fondatore di Taizé si comunicava ogni mattina durante la Messa celebrata in rito cattolico, ricevette più volte la comunione dalla mano di Papa Giovanni Paolo II e alla Messa dei funerali di Wojtyla la ricevette dallo stesso cardinale Joseph Ratzinger.

Sembra che un prete torinese di media età stia avvicinando alcuni confratelli invitandoli ad aderire a una nuova “corrente”, denominata “Patto delle catacombe”. I nomi dei suoi aderenti sotto la Mole sono avvolti dal più fitto mistero, ma si sa che nella Chiesa i segreti sono come quelli di Pulcinella. Famosa è la battuta – che spesso risponde alla pura verità – per cui anche il «segreto pontificio» al quale, sotto pena di censura sono tenuti coloro che ne vengono messi a parte, è spesso conosciuto da tutti meno che dal Papa. Il nome comunque già dice molto. Il “Patto delle catacombe” fu siglato da alcuni padri conciliari, soprattutto sudamericani tra cui dom Hélder Câmara, poco prima della chiusura del Concilio con l’impegno di realizzare una vita di povertà in vista di una Chiesa «serva e povera» senza privilegi di sorta, evitando ogni apparenza mondana anche negli abiti. Tranne il sempiterno ex vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi, gli aderenti di allora sono ormai tutti defunti ma il patto è stato recentemente rinnovato nel 2019 presso le catacombe di Domitilla durante il Sinodo per l’Amazzonia, ponendosi esplicitamente come lobby organizzata a livello internazionale. La nuova corrente torinese, diversamente dai “pellegriniani” e dai “boariniani”  – fenomeni esclusivamente locali – avrebbe quindi una valenza nazionale e ambirebbe a diventare un gruppo di pressione con collegamenti più vasti. Qualcuno ne parla, almeno nelle intenzioni e data la sua segretezza, come una specie di massoneria, una sorta  di “mafia di San Gallo” allargata.

Intanto, come da mesi si attendeva, è calata pesante la scure sui fedeli legati alla Messa tridentina o di San Pio V che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 con il motu proprio Summorum Pontificum, concedendone la celebrazione a tutti i sacerdoti senza necessità dell’autorizzazione del vescovo, come avveniva nel regime precedente. Venerdì scorso Papa Francesco con il suo “contro motu proprio” Traditiones Custodes ha praticamente abrogato le norme emanate dal suo predecessore e ha limitato fortemente la possibilità della celebrazione della Messa antica. Si rende difficoltoso celebrare secondo il Messale del 1962 e se ne dà il bando nelle parrocchie, quasi a creare un cordone sanitario per evitare che venga conosciuto. La notizia ha naturalmente gettato nello sconforto i fedeli legati a quella che veniva definita la «forma straordinaria del rito romano» mentre ha reso euforici i progressisti di ogni corrente i quali, invece di preoccuparsi delle chiese sempre più desolatamente e inesorabilmente vuote, temono moltissimo il “contagio” esercitato dalla Messa sui sia pur pochi  preti e fedeli ad essa legati.

Sembra che l’altra sera presso l’hotel Cavalieri di Pinerolo, monsignor Derio Olivero e alcuni preti torinesi abbiano festeggiato il tanto desiderato provvedimento papale. Anche gli uffici liturgici e i sacerdoti più accanitamente liturgofrenici – a Torino questa specie è presente, sia pure in disarmo – esulteranno, potendosi adesso dedicare, oltre che alle sperimentazioni, alla denuncia di quei confratelli che osassero ancora celebrare con il vecchio rito. Così anche il “boariniano” inquisitore incaricato di sorvegliare i preti giovani, non mancherà di esercitare al meglio il suo zelo. Si riprodurrà quindi, a parti rovesciate, la situazione di inizio Novecento con il Sodalitium Pianum, l’organizzazione che denunciava al Sant’Uffizio i preti modernisti. Per la verità Traditiones Custodes invita i vescovi anche a reprimere gli abusi che si consumano universalmente ogni giorno con il rito di Paolo VI, ma su questo fronte, si può star certi, non accadrà nulla per il semplice fatto che, come i seminaristi di Torino bene sanno, i docenti di liturgia insegnano da decenni che il messale è soltanto un canovaccio, una traccia, per il resto si può liberamente «creare». Così, come è risaputo, non sono pochi i preti della diocesi che inventano il canone della Messa o – come fa abitualmente alla Consolata un noto ex docente di patrologia – ne mutano le parole e il senso, oppure ne omettono alcune parti, senza che mai qualcuno sia intervenuto. Ultimamente poi, la Chiesa è diventata il regno delle eccezioni ma, quando si vuole dire di no a qualcuno, si applicano le regole.

Cosa succederà adesso nel mondo tradizionale torinese e piemontese sul quale nei prossimi articoli sarà bene gettare un po’ di luce? Chi celebrava l’antico rito continuerà a farlo, sia pure in clandestinità, così pure i gruppi di fedeli che chiedevano la Messa antica, e che il nuovo motu proprio sopprime d’autorità, continueranno a crescere e non è detto che la repressione non ne  aumenti il numero, come spesso  avviene ai  perseguitati  nella Chiesa, poiché ciò che i progressisti non hanno compreso – o lo hanno capito molto bene – è che il movimento messo in moto dal Summorum Pontificum  – non tanto in Italia quanto in Europa e negli Stati Uniti – è  ormai come un fiume in piena. Si potrà arginare, si potrà incanalare – e questo l’autorità della Chiesa deve pure farlo – ma non soffocare o spegnere perché l’acqua – e cioè lo Spirito – troverà sempre la sua strada.

E il semplice fedele della piccola pattuglia tradizionale come reagirà di fronte a tali drastiche misure ? Non pochi andranno a ingrossare le fila della Fraternità San Pio X, i cosiddetti lefebvriani, che a Torino sono presenti, ma la maggioranza, i più semplici, non riuscirà a capire fino in fondo perché mai la Messa di don Bosco, del Cafasso, del Cottolengo e di Piergiorgio Frassati debba essere perseguitata e proibita con misure che dividono ulteriormente una Chiesa sempre più divisa. Già negli «Orientamenti per le Messe festive» del 2015, a firma del vescovo Nosiglia, si era esercitata l’ineffabile prosa dell’ufficio liturgico e del suo direttore don Paolo Tomatis, allorché le richieste di celebrazione della Messa antica da parte di gruppi stabili dovevano essere valutate dal vescovo «così da coniugare la generosa accoglienza (indicazione prevista da Summorum Pontificum ) con la  premurosa attenzione». Venuta meno, con le misure di Papa Bergoglio, «la generosa accoglienza» si tratterà di attuare  la «premurosa attenzione». Charitate coniunge dunque, che un arguto monsignore torinese declinava in piemontese: «la carità cun j’ unge», la carità con le unghie. La speranza è che – come la storia insegna e come avvenuto in questo caso – «un papa bolla e l’altro sbolla».

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