GRANA PADANA

Salvini non incanta Torino
(e inquieta i big della Lega)

Non propriamente un pienone al comizio con Damilano: 500 persone, molti militanti precettati da altre province. Una linea politica sempre più confusa e schizofrenica. L'assillo per la concorrenza di FdI. E nel gruppo dirigente cresce la preoccupazione per il voto

Dal deputato super sì vax, tanto da far parte del ristrettissimo numero di volontari che si erano fatti inoculare il vaccino sperimentale italiano Reithera, al pasdaran No Green Pass (ammiccante ai no vax) di Montecitorio. C’è anche questo cambio in corsa nella scelta del parlamentare cui affidare la dichiarazione di voto (favorevole) sul decreto che contiene le norme sul certificato verde. Inizialmente sarebbe dovuto essere Paolo Tiramani, deputato piemontese simbolo inequivocabile del vasto fronte leghista vaccinista e governista neppure un po’ malmostoso di fronte al Green Pass invocato dal vasto elettorato dell’impresa, del lavoro e di chi vede la carta verde come il mezzo per evitare chiusure e limitazioni. Poi, un po’ prima della seduta, lo schema è cambiato. Il capogruppo Riccardo Molinari ha affidato il compito di annunciare il sì della Lega al megafono del no, quel Claudio Borghi  passato dalle piazze No Euro a quelle No Green Pass (e No Vax) ricevendo una delle non frequenti reprimende che si ricordino da parte di un capogruppo solitamente cauto e conciliante con le varie anime della sua nutrita pattuglia a Montecitorio. “Io non ci sono andato e ritengo che i miei colleghi hanno sbagliato ad andare in piazza”, sillabò poco più di un mese fa il giorno dopo, senza citare i colleghi tra i quali spiccava proprio Borghi, che qualche settimana dopo avrebbe sostenuto con forza il voto insieme a Fratelli d’Italia su un emendamento contro il Governo.

Nemesi, pena del contrappasso, messaggio all’interno e all’esterno del partito? Forse, in quella scelta che dal sì vax Tiramani cadrà sul No Green Pass Borghi, c’è tutto un po’. Anche l’ennesima linea della Lega che, da un po’ di tempo, diventa curva, s’intreccia, s’incrocia portando a far dire a sempre più e sempre più preoccupati leghisti, dalle prime file ai semplici militanti, che una linea il partito non ce l’ha più. E se ce l’ha, chi la capisce è bravo.

Con gli imprenditori che chiedono vaccini e certificati per non tornare a chiudere, ma intanto strizzare un po’ l’occhio a chi in piazza e più ancora sul web le studia tutte, comprese baggianate sesquipedali, per dire che il Green Pass è roba da Norimberga. Con Mario Draghi, riconfermando lealtà assoluta, ma nel frattempo non dimenticandosi di strizzare l’occhio alla destra sociale. Matteo Salvini guida questa Lega, il Carroccio si sarebbe detto un tempo quando il cognome Durigon avrebbe fatto pensare d’acchito a un militante veneto, mentre cresce il fronte di chi si chiede, come a bordo di un pullman che sbanda, accelera e frena, dove si voglia davvero andare. 

La meta più prossima, imminente addirittura, sono le elezioni comunali. Quelle nelle grandi città sembrano una strettoia a chi, nel partito, guarda l’autista inseguire su strade mai o poco frequentate la comitiva dei Fratelli d’Italia. Seguire la mappa di Giorgia Meloni quanto può pagare o risultare alla fine troppo rischioso, tenendo a mente il detto secondo cui tra l’originale e la copia si preferisce sempre il primo. L’ultimo partito leninista, s’è sempre detto – con l’immancabile Borghi che accentua il concetto e ridendo lo trasforma in stalinista – ma adesso la forza politica nel cui vocabolario non contemplava la voce “correnti” vanta trasposizioni personali delle visioni interne e delle proiezioni esterne: salviniani, giorgettiani, borghiani e via andare. Ma dove? Neppure la sempiterna definizione di lotta e di governo basta per individuare la rotta. 

“Non ho avversari nel centrodestra” ha detto ieri sera Salvini, parlando a Torino. Chiamali, se vuoi, in altro modo. Ma i Fratelli d’Italia con la loro costante e arrembante crescita nei sondaggi preoccupano la Lega. Non sotto la Mole dove si profila un raddoppio dei voti leghisti rispetto a quelli della Meloni. Tallonano un po’ di più a Novara, ma anche lì la Lega è lontana da quella soglia critica del 20% che viene temuta sul risultato generale delle prossime amministrative. Non starvi al di sopra (e possibilmente di un bel po’) sarebbe un disastro. 

“Sono orgoglioso di avere portato tutta la coalizione a Torino e non solo a Torino, a scelte civiche”, ha detto il Capitano con accanto Paolo Damilano, l’imprenditore candidato sindaco che poche ore prima ha postato la sua foto, spalla scoperta e ago piantato e adesso, il giorno dopo l’8 settembre, vola alto, forse un po’ troppo, spiegando che per Torino “queste elezioni sono le più importanti dal dopoguerra”. Che lo siano per la Lega, rispetto alla guerra negata contro FdI per la leadership del centrodestra,è fuori discussione. “A Torino mi aspetto che la Lega cresca. In questa città – ammette Salvini reduce dalla tappa novarese dove la riconferma del sindaco uscente Alessandro Canelli è pressoché certa, meno l’argine leghista all’avanzata meloniana – abbiamo sempre faticato più che in altri capoluoghi, ma sono felice delle liste fatte, che per la metà sono composte da gente senza la tessera della Lega in tasca, quindi – la conclusione offerta – c’è una parte della città che ci crede”. Poco calorosa, a giudicare dalle appena 500 persone presenti in piazza Solferino, non propriamente una folla oceanica, visto che molti arrivavano da altre province del Piemonte, precettati dai capi locali.

"Sicuramente miglioreremo spero che non ci fermeremo al 49,9%, e che almeno qui la partita venga chiusa al primo turno. Poi ovviamente l'ambizione è che all'interno del centrodestra la Lega sia la prima forza politica. Però il mio avversario è a sinistra, non ho avversari nel centrodestra”, ripete come un mantra, come qualcosa di cui vuoi convincere chi credi che lo pensi. E chi lo pensa si preoccupa per quella sindrome dell’inseguimento su temi e battaglie non proprie della Lega, che il leader non dà l’impressione di riuscire a superare. 

Gli stessi stop and go di Salvini sul Green Pass provocano una crescente irritazione nel fronte dei governatori leghisti e di chi ha nelle mani la gestione della sanità regionale. Una distanza tra le prime linee sul territorio e il vertice del partito, insieme alla sempre più lamentata assenza di un linea chiara, di cui la Lega potrebbe pagare un prezzo già nelle urne. Mentre quota cento, il totem sulle pensioni si avvia alla scomparsa, per Salvini l’uomo che prese in mano la Lega nel 2013 al 4% e sei anni dopo la portò al 34,33% delle europee, si agita lo spettro di quota venti.

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