SACRO & PROFANO

Repole studia la cura per la diocesi, meno presenzalismo e più ascolto

Rispetto a Nosiglia rifugge la ribalta mediatica e pare concentrato sui doveri d'ufficio, pastorali e di governo della Chiesa. Al primo posto la riorganizzazione territoriale. L'insegnamento di don Foradini sulla massoneria. L'utero di don Albarello

I vescovi piemontesi si sono riuniti nei giorni scorsi ad Aosta e hanno eletto come loro presidente il vescovo della diocesi alpina, monsignor Franco Lovignana. Il suo nome era stato fatto già più di un anno fa quando si era tentato, da parte di monsignor Giulio Franco Brambilla, vescovo di Novara, di sostituire monsignor Cesare Nosiglia alla presidenza, riservata per consuetudine all’arcivescovo di Torino fin da quando fu istituita negli Anni Sessanta la Conferenza episcopale piemontese. Come vicepresidente era stato eletto l’arcivescovo di Vercelli, monsignor Marco Arnolfo, il quale ha rinunciato a favore di monsignor Roberto Repole.

Abituati al presenzialismo del predecessore, che non mancava mai di intervenire in ogni sciopero con seguito di telecamere, sembrerebbe quasi che con il nuovo vescovo la diocesi di Torino sia sparita dalla comunicazione. In realtà monsignor Repole si sta dedicando primariamente nientemeno che alle cure del suo ufficio e cioè al governo della Chiesa, cosa che ultimamente era stata, se non abbandonata, almeno passata in second’ordine. Come prima tappa del processo che porterà a ripensare il futuro della diocesi, l’arcivescovo incontrerà, sabato 15 ottobre prossimo il clero diocesano dove si prenderanno in considerazione le strutture attuali in vista di quel «ridisegno della presenza della Chiesa sul territorio» e cioè della riduzione delle parrocchie.

Il vicario per la formazione, don Michele Roselli, per indorare la pillola ha anticipato che si chiederà alle parrocchie e ai preti di pensare il loro territorio valutando «quali germogli di vita cristiana, quali iniziative o momenti di Chiesa vedono più vere e promettenti». In realtà, tutti sanno che di germogli ve ne sono ben pochi in una Chiesa che sta attraversando uno dei periodi più difficili e aridi della sua storia. Per questo si dovranno tagliare – qualcuno, ovviamente, preferisce dire potare – i rami secchi e cioè le parrocchie. Il processo è partito e in primavera si tireranno le somme.

Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Iglesias presentata da monsignor Giovanni Paolo Zedda e ha nominato Amministratore apostolico il cardinale Arrigo Miglio. La notizia è stata letta in vari modi: la prima, che la nomina del porporato di S. Giorgio – già vescovo di Iglesias dal 1992 al 1999 – preluda all’unione con Cagliari; la seconda, è che lo stesso Miglio dovrà provvedere alla scelta del nuovo pastore nel caso in cui Iglesias mantenga la sua autonomia. Che – come qualcuno ipotizza – tocchi di nuovo ad un prete canavesano?

La notizia della settimana è senz’altro quella della presenza del vescovo di Terni, monsignor Francesco Antonio Soddu, nominato da papa Francesco nell’ottobre del 2021, a un importante evento della massoneria italiana. Il presule ha infatti partecipato all’inaugurazione del nuovo ingresso della sede del Grande Oriente d’Italia nella città umbra. Accolto dalle gerarchie dei “liberi muratori”, il vescovo ha tagliato il nastro insieme ai “maestri venerabili” e – parrebbe – ha pronunciato un discorso di cui non sono stati resi pubblici, nonostante una sollecitazione in tal senso alla curia diocesana, i contenuti. Persino il sito assai vicino all’entourage bergogliano Il Sismografo ha manifestato un palese disappunto chiedendo se monsignor Soddu fosse a conoscenza, o avesse mai letto, un documento della Santa Sede del 26 novembre 1983 intitolato «Dichiarazione sulla Massoneria» nel quale si riconfermava la inconciliabilità radicale tra la fede cristiana e l’adesione alle logge massoniche, tanto che per i cattolici vige ancor oggi il divieto di farne parte, pena lo stato di peccato mortale e l’impossibilità di accedere ai sacramenti. Alla richiesta di chiarimenti, la curia di Terni ha emesso un ridicolo comunicato, in cui si sostiene che il vescovo non si identifica con un pensiero differente dalla dottrina della Chiesa ma «testimonia la fedeltà al Vangelo e alla Chiesa». È questa la tipica posizione del pastoralismo odierno in cui la dottrina non viene contestata ma semplicemente messa da parte. Quindi “no alla massoneria e sì ai massoni”. Ma, come è stato notato, questo sincretismo ha come risultato di «impedire ai fedeli di conoscere veramente la pace, l’ambiente e la giustizia, non secondo le religioni che credono nell’essere supremo, ma secondo quanto ci ha insegnato Gesù Cristo e la sua Chiesa».

Dopo il fatto di Terni, il pensiero non può non andare a don Mario Foradini, classe 1936, ordinato nel 1960, decano dei pastori torinesi che ancora resiste sulla breccia della parrocchia di S. Secondo, infaticabile nel dedicarsi al ministero e al prossimo con opere quali la realizzazione della “Clinica della Memoria”. Chi lo conosce, sa bene come don Mario abbia sempre parlato chiaro in tutte le sedi rispetto alla presenza della massoneria in città, chiedendosi spesso se certe decisioni – o non decisioni – fossero dovute all’influenza di quell’associazione segreta che propone un visone del mondo antitetica a quella cattolica. Ascoltato con compatimento o con fastidio, rappresentante di quel clero che aveva ancora ben chiaro il magistero della Chiesa sulla massoneria, don Mario non avrà certo gioito nel vedere un successore degli Apostoli varcare la soglia di un tempio dove si celebra, in parole e gesti di forte valenza simbolica, la religione del relativismo.

Il 12 ottobre prossimo, si compirà il 60° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Il grande – si potrebbe dire gigantesco – teologo gesuita francese Henri-Marie de Lubac (1896-1991) partecipò, in qualità di perito, a tutte le sessioni conciliari dove lasciò, insieme al padre domenicano Yves Congar, una traccia non trascurabile nei documenti che ne scaturirono, così come si evince nei due tomi che compongono gli imperdibili suoi Carnets du Concile. Egli è uno dei due autori sui quali l’arcivescovo Roberto Repole si è addottorato in teologia all’Università Gregoriana discutendo la bella tesi – un po' faticosa ma ne vale la pena – dal titolo “Chiesa pienezza dell’uomo. Oltre la modernità: Gabriel Marcel e Henri de Lubac”. Stimatissimo dal teologo Joseph Ratzinger, che da papa lo volle cardinale, amico del cardinale Michele Pellegrino, de Lubac venne più volte a Torino e fu il primo che, verso la fine delle grandi assise ecumeniche, intravvide profeticamente la piega che stavano prendendo gli eventi nella Chiesa, coniando per questo il termine di «paraconcilio», con il quale denunciava quell’atmosfera di febbrile agitazione – imposta dai media e alla quale soggiacquero vescovi e teologi – che già durante e poi negli anni successivi al Vaticano II,  portò  a forzare conclusioni alla quali il concilio  non era mai giunto sino a essere classificato non come il 21° della Chiesa cattolica, ma come «l’inizio dell’inizio» (Karl Rahner).

Fu Benedetto XVI, altro protagonista assoluto dell’evento, a spiegare meglio cosa si dovesse intendere per «paraconcilio» e lo fece nel suo ultimo discorso da papa, pronunciato nel 2013 davanti al clero romano: «C’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi, il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, il Concilio dei giornalisti aveva un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Il Concilio dei media era quello dominante, più efficiente, ma ha causato tante calamità, tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… e il vero Concilio ha avuto difficoltà a realizzarsi, il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale».

Le rievocazioni alle quali assisteremo nei prossimi giorni celebreranno, in larga misura, il Concilio dei media – impostosi nella storiografia e nella teologia – non quello dei Padri. Ma non c’è da temere. La storia, diceva Benedetto Croce, non è giustiziera, ma giustificatrice, quella della Chiesa poi ha tempi lunghissimi. Come tutte le costruzioni ideologiche, quella dei media non reggerà ed emergerà infine il concilio vero – quello dei Padri – quello che si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, come riforma, non come rottura.

«Il Dio di Gesù Cristo ha cuore di padre e utero di madre». Questo fulminante slogan – denso di implicazioni teologiche – è apparso sul profilo del teologo monregalese don Duilio Albarello del quale ci siamo già occupati (qui e qui) e che, oltre ad essere direttore dell’Issr di Fossano, fucina di menti del progressismo della Granda, è anche docente presso la nostra alma facoltà teologica, nonché relatore nella recente assemblea diocesana torinese. Un commentatore si domanda cosa voglia dire il filosofo Michel Onfray, citato nell’articolo di domenica scorsa, quando rimprovera la Chiesa di aver liquidato la metafisica per sostituirla con un freddo moralismo. Si potrebbero fare molti esempi, ma uno viene proprio dal simpatico teologo Albarello quando, sempre in un suo post, se la prende con il prefazio della SS. Trinità definendolo un «capolavoro assoluto di incomunicabilità», fatto di formule dottrinali che rischiano di scadere «in una sorta di idolatria dogmatica». Così i redattori del nuovo messale non avrebbero avuto il coraggio di modificare radicalmente un testo «inascoltabile sia dal punto di vista liturgico, sia dal punto di vista teologico» in quanto, forse, impegnati «ad inserire ogni due righe il termine «sacrificio» sotto la spinta di un ossessivo furore neo- tridentino».

Chi conosce quel prefazio – risalente al VII secolo – che dal XIII fino alla riforma era quello delle domeniche da dopo Pentecoste all’Avvento, deve riconoscere che esso è un monumento di dottrina e di pietà e, per quanto possa apparire complesso rispetto al linguaggio feriale dei fedeli, esso esprime in maniera assolutamente coerente la fede della Chiesa nella Santissima Trinità e nelle relazioni tra le sue tre Persone. Lo fa utilizzando le categorie della metafisica che non possono essere abbandonate, non solo per il loro rigore, ma perché non si ha a disposizione nulla di altrettanto fedele e chiarificatore rispetto al grande Mistero della Trinità, salvo scadere nel ridicolo o nel banale di qualche similitudine modernizzante. Ogni sostituzione della metafisica e del linguaggio metafisico, o introduce in una migliore comprensione, oppure crea confusione. Dal momento che la confusione oggi regna sovrana nella Chiesa, meglio restare ancorati alle categorie classiche, magari facendo lo sforzo di spiegarle ai discenti e al popolo. Il compianto cardinale Carlo Caffarra sosteneva che «una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante».

I suoi confratelli della Compagnia di Gesù hanno dato alle stampe una raccolta dei colloqui avuti con loro da papa Francesco nei vari viaggi in tutto il mondo. In tali occasioni, come nelle conferenze stampa in aereo, emerge il vero pensiero del pontefice in quanto, non dovendo soggiacere ai testi scritti e senza le precauzioni della diplomazia, dice in sostanza quello che pensa veramente. Incontrando a Bratislava i gesuiti della Slovacchia, il 12 settembre 2021, così si esprimeva il Santo Padre sulla questione  del “gender”: «L’ideologia ha sempre un fascino diabolico, perché non è incarnata. In questo momento viviamo in una civiltà delle ideologie, questo è vero. Dobbiamo smascherarle alle radici. L’ideologia del gender è pericolosa. Così come io la intendo, lo è perché è astratta rispetto alla vita concreta di una persona, come se una persona potesse decidere astrattamente a piacimento se e quando essere uomo o donna. L’astrazione è per me sempre un problema. Questo non ha nulla a che fare con la questione omosessuale, però. Se c’è una coppia omosessuale, noi possiamo fare pastorale con loro andare avanti nell’incontro con Cristo. Quando parlo dell’ideologia, parlo dell’idea, dell’astrazione per cui tutto è possibile, non della vita concreta delle persone e della loro situazione reale».

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