SACRO & PROFANO

Repole ne fa una questione personale

Una fuga di notizie costringe l'arcivescovo ad anticipare la comunicazione sul cambio della guardia al Seminario di Torino. Scelto il "boariniano" Doc don Garrone. Attesa per il 9 giugno quando annuncerà la "nuova distribuzione delle risorse umane"

Rullano i tamburi per la grande convocazione diocesana del 9 giugno quando l’arcivescovo di Torino Roberto Repole, insieme al suo consiglio episcopale, illustrerà «il percorso di rinnovamento che rende necessaria una nuova distribuzione delle risorse umane». Qualche anticipazione però è già stata messa in cantiere, anzi è già stata decisa, «in stile sinodale». A un “boariniano” della prima ora è stato affidato uno dei posti strategici della diocesi, quello di rettore del seminario maggiore, a sovrintendere la formazione dei futuri sacerdoti. Dopo che l’interessato aveva diffuso ai suoi fedeli la notizia e che questi l’avevano divulgata, si è corsi ai ripari comunicandola sul sito diocesano. Finisce così la gestione, assai grigia, del “normalizzatore” don Ferruccio Ceragioli e approderà in via Lanfranchi don Giorgio Garrone, classe 1966, ordinato nel 1994, moderatore dell’Unità pastorale n. 50, parroco di S. Antonino Martire e S. Andrea a Bra.  La notizia era da tempo nell’aria. Infatti, i fratelli Garrone (l’altro è Gilberto, anche lui parroco a Bra) hanno costituito da un po’ di tempo un nucleo ufficioso di formazione che viene preso a modello dalla “cabina di regia”. Lo stile del nuovo rettore è molto “monastico”, ma di un monachesimo tutto moderno e pienamente immedesimato nella «Chiesa umile» tanto cara all’arcivescovo; così umile che in trent’anni di incarichi pastorali, non risulta abbia accompagnato vocazioni in seminario. Un poco fragile culturalmente – ma il garante della teologia debole è lo stesso Repole – don Garrone, che gode di una umanità piana, capace di incontrare, è esponente fedele del “pensiero boariniano”, secondo cui, nel migliore dei casi, «il prete è un uomo di fede che accompagna la fede altrui», con il supporto della scienza psicologica dispensata dalla  virgo plus quam potens di Vercelli, Anna Bissi, ben più efficace della Grazia, di un atteggiamento sempre dialogante e mai – non sia mai! – militante, ovviamente aperto «alle nuove forme di affettività» (purché «vissute nella fedeltà», cioè nella permanenza del peccato) e avendo ampiamente superato non solo il senso, ma perfino l’idioma stesso del «sacro», sostituito da un sentimentalismo galleggiante, accostabile a qualsiasi spiritualità. Si comprende allora benissimo quale sia il modello di prete che si vuole formare.

Il nuovo rettore della comunità Propedeutica – quello che un tempo era il seminario minore – sarà invece don Simone Sassi, classe 1977, ordinato nel 2017, viceparroco di Orbassano, come lo era stato don Garrone, che si è formato nella diocesi di Frosinone nella Comunità dell’Emanuele “Nuovi Orizzonti” dedita al disagio sociale, fondata da Chiara Amirante, scrittrice e ideatrice di un programma pedagogico riabilitativo e della conoscenza di sé, denominato Spiritherapy.

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Per farsi un’idea di come oggi il grave problema delle vocazioni sacerdotali venga affrontato dalle gerarchie occorre andare a Mondovì dove, recentemente, si è svolta, al santuario di Vicoforte, la “giornata della fraternità del clero” monregalese alla presenza dell’arcivescovo Repole. In tale occasione, il vicario generale, don Flavio Begliatti, ha svolto un’interessante, anche se assai poco originale, riflessione. Trent’anni fa la diocesi di Mondovì aveva trecento preti, oggi sono meno di cento in costante diminuzione: «Una stretta al cuore la si avverte quando, ogni anno, al termine della concelebrazione si leggono i nomi di chi festeggia anniversari “alti” e a mano a mano che si scende ci sono lunghi periodi di vuoti e sporadiche ordinazioni… viceversa si mantiene elevato, ogni anno, il numero dei defunti». A fronte di questa desolazione, monsignor vicario spera che arrivino nuovi candidati al sacerdozio e per questo oltre alla preghiera – sacrosanta e vero rimedio alla crisi delle  vocazioni, Rogate ergo Dominum messis – ecco quale sarebbe in humanis la ricetta: «Occorre che i ragazzi e i giovani che abbiamo intorno, nei nostri oratori e nelle nostre parrocchie, vedano dei preti che, anche se un po’ affaticati, si aiutano e si stimano a vicenda non da rassegnati, ma da appassionati per il Regno di Dio. Alleniamoci a diventare più esperti in umanità, dunque in fraternità».

Quindi la «passione per il Regno» e i suoi valori sarebbero la molla che dovrebbe spingere i giovani a farsi prete e cioè a rinunciare alle legittime gioie di questo mondo per diventare «esperti in umanità». Effettivamente un po’ poco. Viene in mente Don Bosco quando, ad un giovane che voleva farsi prete, gli domandò i motivi e alla sua risposta – «Voglio diventare come lei, far del bene ai giovani, farli divertire in oratorio, educarli» –, il santo disse: «No, figliuolo, non sei adatto, tu devi farti prete per salvar l’anima tua». Perché in fondo anche quella massonica è una fraternità e di non disprezzabile dignità e spessore.

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Nella recente Assemblea generale annuale della Cei, papa Francesco pare abbia risparmiato ai vescovi italiani la consueta strigliata, ma questa volta un segnale al pontefice l’hanno mandato loro. Mesi fa, con il solito stile autoritario e accentratore, Bergoglio ha praticamente commissariato la sua diocesi spedendo monsignor Gianpiero Palmieri, vicegerente di Roma, al molto meno prestigioso incarico di vescovo di Ascoli Piceno. Adesso i vescovi italiani, lo hanno eletto – profittando del voto segreto – vicepresidente della Cei per l’Italia centrale.

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Nessuna reazione ufficiale della Curia torinese all’ennesima iniziativa di Silvio Viale per la rimozione del Crocifisso dalla Sala Rossa. Sul tema, la conferenza dei capigruppo, dopo aver audito l’avvocato Bruno Segre, avrebbe dovuto ascoltare per la Curia don Ermis Segatti, ma pare che l’incontro sia saltato. Peccato, perché la comparsa del tuttologo don Ermis con le sue leggendarie camicie hawaiane avrebbe dato un tocco di esotismo allo sgangherato dibattito.

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Devastationis Custodes

Per chi non lo sappia il pallio è quella striscia circolare con pendente anteriore e posteriore tessuta con la lana bianca di due agnelli ornata di sei crocette e di frange nere ed è l’insegna riservata di diritto al pontefice e agli arcivescovi metropoliti. Almeno fino ad ora, tale antichissimo indumento liturgico non è ancora stato oggetto di dileggio o profanazione o di tacita rimozione, come avvenuto invece per l’amitto che non indossa quasi più nessuno. Interrogato in proposito, un prete torinese – nemmeno dei più insipienti – ha candidamente risposto che la scomparsa dell’amitto, sostituito dal camicione con zip, è stata voluta nientepopodimeno che dal Concilio! Adesso è però arrivato anche per il pallio il turno delle pagliacciate o meglio della “creatività”. Il 19 maggio scorso monsignor Stephen Marmion, vescovo di Auckland, presidente della Conferenza episcopale della Nuova Zelanda, ha concelebrato nella sua cattedrale di S. Patrizio con indosso – a mo’ di pallio – una ghirlanda prodotta con barrette di cioccolatini Snickers, durante la Messa trasmessa in diretta televisiva sono stati battezzati e cresimati alcuni fanciulli. A tanto, l’estro di Federico Fellini nella famosa scena della sfilata di moda ecclesiastica del suo film Roma, non sarebbe arrivato. Molto alla piemontese, si potrebbe dire: fare la figura dei cioccolatai. Desiderio desideravi.

A proposito di stile clericale, qualcuno ci ha fatto notare che l’arcivescovo Repole porta sempre la mitra episcopale “sulle ventitré” e cioè di sghimbescio sul capo in modo che spunti sulla fronte il ciuffo ribelle. Sembra però che ciò avvenga di proposito e non a caso e abbia come scopo la “sclericalizzazione” dell’immagine del vescovo il quale, in fondo, non è che un battezzato come tutti gli altri.

Credits: foto apertura di Renzo Bussio, La Voce e il Tempo

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