SACRO & PROFANO

Torino modello per la Chiesa italiana,
Repole insegna la riorganizzazione

L'esperimento in corso nella diocesi subalpina avrà valenza nazionale: parrocchie affidate a equipe di tre laici, con preti itineranti. La morte di Bettazzi e la fine di un'epoca. Prove fallite di sinodalità. Gli equivoci "creativi" dell'ars celebrandi, il vescovo con la fisarmonica

L’arcivescovo Roberto Repole ha rilasciato un’intervista all’agenzia Sir dopo l’incontro avuto a Benevento con una trentina di vescovi di diverse regioni dove ha offerto le prospettive con cui affrontare nuove forme di presenza ecclesiale ripensando l’esercizio del ministero ordinato, sulla falsariga dell’impianto illustrato per la sua diocesi e che sta per essere attuato. L’impressione è che l’esperimento torinese avrà valenza nazionale e si porrà come pilota per molte altre realtà ecclesiali italiane collocando il vescovo di Torino fra gli emergenti della Chiesa di Francesco. A questo proposito ha affermato la necessità di «chiarificare innanzitutto il ministero del prete come un ministero di presidenza della comunità, che non significa necessariamente che al prete competa tutto. Presiedere significa appunto essere un perno, un centro di unità, ma soprattutto radicare le comunità nella memoria apostolica. I compiti del servizio di presidente sono dettati da questa finalità, quindi deve garantire che in una comunità o in un gruppo di comunità cristiane si rimanga ancorati alla testimonianza apostolica e questo significa liberare altre ministerialità o scoprire che ci sono altre ministerialità». Pur comprendendo che l’uditorio al quale si rivolgeva l’arcivescovo era composto dai suoi confratelli, appare singolare – ma non sorprendente – come la figura del sacerdote sia ridotta ad essere quello di un leader, di un moderatore e non venga in alcun modo significata la natura sacramentale del suo ministero che infine ne è l’essenza. Un riduzionismo funzionalista che è il frutto di una teologia ben precisa.

Nella stessa intervista, l’arcivescovo riprende il progetto torinese di affidare la parrocchia o le parrocchie a una équipe di laici che è da sempre una delle idee portanti del gruppo “boariniano”. Si comprende così come la crisi delle vocazioni non sarebbe da imputare – fra gli altri – alla crisi della fede ma una splendida occasione per inventare e strutturare nuove ministerialità e per il «rinnovamento degli stili di vita» delle comunità. Il governo delle parrocchie verrebbe affidato a dei laici – formati nel nuovo istituto diretto da don Paolo Tomatis – che costituirebbero il «gruppo ministeriale a tempo» composto da almeno tre persone sui quali primeggerà il «membro dell’equipe-guida di comunità» che sarà il nuovo nome del “quasi parroco”. Il sacerdote titolare delle parrocchie si trasformerà così in un vescovo in miniatura itinerante che passerà ogni tanto a consacrare l’Eucarestia e sarà chiamato a sovrintendere ai vari gruppi ministeriali. Facile prevedere che tale operazione avrà come risultato la clericalizzazione dei laici la cui vocazione non sarà più quella di ordinare a Dio le realtà temporali ma avrà come precipuo compito la celebrazione della Parola con omelia (camuffate da Santa Messa) e dei matrimoni, dei funerali, l’amministrazione dei battesimi, nonché ovviamente ogni incombenza di carattere amministrativo. Il modello è chiaramente di derivazione protestante con gli esiti di desertificazione che ben conosciamo. Non ci si illuda poi che il progetto snellirà le strutture perché tra organizzazione dei corsi di formazione, istituzione dei ministeri ad quinquennium, le appesantirà ancor di più.

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Se l’ottimismo un po’ ingenuo che pervadeva la Gaudium et Spes fu oggetto delle critiche di teologi del calibro di Karl Rahner, ebbe un convinto sostenitore in monsignor Luigi Bettazzi. Sodale di Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo, egli non poteva che assumere, come loro, un atteggiamento critico verso Paolo VI il quale, a partire dal 1968, aveva visto infiltrarsi nel tempio il «fumo di Satana» e avviarsi quel processo di «autodemolizione» della Chiesa che lo avrebbero portato a contenere le spinte più progressiste e a promulgare l’enciclica Humanae Vitae, deludendo le aspettative di molti. Linea continuata poi da Giovanni Paolo II il quale, avendo praticato e ben conosciuto il comunismo e i comunisti reali, sapeva bene le insidie che conteneva la parola «dialogo», che invece fu la parola d’ordine di quel fenomeno, tutto italiano, che va sotto il nome di cattocomunismo. Monsignor Bettazzi rimase invece sempre e fino alla fine fedele alla figura – assai più mitizzata che reale – di Giovanni XXIII e ad una visione del Concilio come «rivoluzione copernicana». In una delle sue ultime interviste disse che papa Roncalli, partendo dal fatto che la Verità già si conoscesse, voleva, indicendo il Concilio, «non l’essere umano di fronte alla Verità ma che essa fosse riferita al servizio della persona umana». In un suo libro-intervista scrisse che «con tutti coloro che ritengono che mangiando quel “pane” il Signore venga in noi, potremmo ammettere di mangiare il pane tutti insieme», risolvendo in tale semplicistico modo secoli di discussioni teologiche. Per questo non vi fu mai consenso – salva reverentia – verso le posizioni di Benedetto XVI, al quale ricordava che lui era stato padre conciliare, forse dimenticando quale fu al Concilio il ruolo dei periti che – come Ratzinger – ispirarono interi documenti e vissero la grande assise dall’interno. Così, a Bettazzi non piacque il “Catechismo della Chiesa Cattolica” e ancor meno il famoso discorso alla Curia romana del 2005.

Un po’ deluso dalla piega che la Chiesa stava prendendo, Bettazzi iniziò così a scrivere e a pubblicare – uno all’anno – i suoi libri: sempre interessanti, teologicamente deboli ma accattivanti, più degli instant book che dei saggi e che, riprendendo i temi del giorno, mettevano in luce i ritardi della Chiesa. Divenne poi celebre per le sue prese di posizioni pubbliche, come la famosa lettera al segretario del Pci Enrico Berlinguer del 1976 al quale questi – aspettando una presa di posizione ufficiale della Cei o del Vaticano che non venne mai – scrisse un anno dopo una lettera di risposta che andrebbe riletta nel suo contenuto. Anche nella parte in cui affermava che il Pci non è un partito «praticistico», ma ha un «suo respiro ideale», costituito dalla «vivente lezione del pensiero politico rivoluzionario, e dai fondatori del movimento comunista» per cui concludeva: «Signor Vescovo, noi non siamo esplicitamente marxisti-leninisti, ma operiamo ispirandoci al marxismo-leninismo, che è la ragione del nostro successo». Ma ancor prima il segretario del Pci, oltre a rivendicare il centralismo democratico e la via italiana al socialismo affermava che esso «attinge alla ricca e multiforme esperienza del movimento operaio internazionale dell’Unione Sovietica, della Cina popolare e di tutti i paesi di nuova democrazia e partecipa allo scambio di esperienze con i partiti comunisti di tutto il mondo». Paradossalmente, la sua esposizione nazionale lo rese meno attento alle dinamiche diocesane lasciando governare i vicari, tollerando così posizioni anche distanti dalla sua per cui oggi Ivrea è una diocesi assai più pluralista di altre, rispetto a quelle dove vescovi assai meno colti e intelligenti di Bettazzi – come nel    Cuneese – imposero quella «ideologia conciliare» che le sta rendendo sterili e marginali.

Qualcuno, in questi giorni di commemorazioni, ha affermato che Bettazzi fu – anche come vescovo – un militante di sinistra e forse questa affermazione, piuttosto rozza, coglie qualche verità, nel senso che la sua fede sincera si coniugava con l’utopia la quale, come diceva il cardinale Giacomo Biffi, ha però poco di autenticamente cristiano. Una volta il cardinale Camillo Ruini – anch’egli emiliano e quanto di più agli antipodi vi fosse con monsignor Luigi – disse che oggi se si vogliono trovare dei veri comunisti non ancora inquinati dal nichilismo radicale, bisogna andare a cercarli fra i preti di una certa età.

Le sue esequie sono state un trionfo, ma a ben vedere avevano qualcosa di malinconico, non solo perché esprimevano il sincero cordoglio verso l’amato vescovo, ma perché si capiva che di fronte al suo feretro, avvolto nella bandiera arcobaleno, si stava definitivamente chiudendo un’epoca, fatta di tanti entusiasmi e di altrettante illusioni. L’immagine più triste ed eloquente era quella del clero eporediese: anziano, visibilmente esausto e stremato dal caldo. Adesso ci attendono dai tardi epigoni del “bettazzismo” convegni, simposi, commemorazioni, miscellanee, profili biografici, testimonianze etc. e cioè l’eterno ritorno del sempre uguale. Monsignor Bettazzi era un formidabile raccontatore di aneddoti e storielle, esse prendevano quasi sempre di mira i conservatori, in particolare il cardinale Alfredo Ottaviani che fu prefetto di quella che era la congregazione del Sant’Uffizio.  Siamo certi che appena lo incontrerà in paradiso gli comunicherà con giubilo che il suo posto è stato preso da un certo Tucho Fernández

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Prove di sinodalità. Davanti alla chiesa dei francescani a Francoforte sul Meno un cartello luminoso con i colori dell’arcobaleno invita all’accoglienza «di tutti i sessi, di tutti i colori, di tutte le credenze, di tutte le religioni, tutti…». Alcuni ingenui ragazzi hanno così iniziato a distribuire una rispettosa lettera aperta al vescovo in cui si mettono in luce alcune controverse questioni dottrinali del Cammino sinodale tedesco. Saputolo, un francescano con fare da energumeno li ha redarguiti e minacciati rifiutando ogni invito al dialogo: «Non c’è accoglienza per voi!». Lo stesso è avvenuto a Lussemburgo dove il cardinale Jean-Claude Hollerich, relatore generale del prossimo Sinodo, ha proibito la distribuzione della lettera.

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Ricorre in questi giorni l’anniversario dello scioglimento della Democrazia Cristiana, avvenuto il 26 luglio 1983 e Giorgio Merlo, per l’occasione, su Il Riformista del 21 luglio, ha ricordato le parole di Guido Bodrato, scomparso da poco: «La Dc è come un vetro infrangibile. Quando si rompe va in mille pezzi e non è ricomponibile» per dire che quell’esperienza – fondamentale per la storia d’Italia – fu unica e irripetibile e per rivendicarne gli indubbi meriti storici della “Balena bianca” contro la narrazione riconducibile al campo della sinistra politica, culturale, editoriale, intellettuale ed accademica che, «ieri come oggi, continua ad individuare nella Dc e nella sua straordinaria classe dirigente una esperienza criminale o semplicemente nefasta per la democrazia italiana». Le parole di Bodrato riferite alla Dc si possono a maggior ragione applicare all’unità politica dei cattolici ma anche ai ripetuti tentativi di far rinascere un soggetto politico di ispirazione cristiana poiché il vero problema è che i cattolici in politica spesso – ma non tutti – non hanno fatto o detto nulla di cattolico e la prova è che hanno votato tutte le leggi apertamente contrarie alla legge naturale.

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Devastationis Custodes

Cettina Militello è una delle teologhe ed ecclesiologhe d’avanguardia, sostenitrice dell’ordinazione delle donne e negli ultimi tempi i suoi contributi vengono pubblicati da L’Osservatore Romano. Sul numero del 1° luglio riferisce una conversazione avuta con Silvano Maggioni, noto liturgista scomparso da due anni, al quale confessò il suo disagio nell’assistere alle liturgie odierne: «Mi sembrava tutto finto: i gesti, le parole, le vesti… Se mi guardo attorno – aggiungevo – vedo persone annoiate, sempre più poche e lì presenti per abitudine… insomma niente gioia, niente comunità, niente che tocchi veramente i presenti, celebrante incluso, anch’esso poco convinto e convincente. Mi rispose che quel disagio era anche il suo. Mio coetaneo aveva vissuto l’avvio della riforma liturgica del Vaticano II, gli anni di sperimentazione ed entusiasmo, nel segno della nobile semplicità a cui andavano restituiti i riti e nel segno della partecipazione actuosa, creativa del popolo di Dio nella sinfonia attiva dei suoi carismi-ministeri». Dopo tanto sferzante e impietoso giudizio, ci sia aspetterebbe un minimo di analisi autocritica, se non sulla riforma, almeno sulla sua applicazione. Invece la soluzione che auspica la teologa Militello è, incredibilmente, quello di «reiventare la liturgia e fare spazio alla creatività liturgica e a soggettualità nuove». Un po’ come quei comunisti del buon tempo antico che di fronte al fallimento e al crollo del socialismo reale dicevano: «Ma quello non è il comunismo vero! Il comunismo vero è il nostro ed è tutto da costruire!».

Su questo punto nel 1988 il cardinale Ratzinger parlando ai vescovi cileni disse nel 1988: «Dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con lo scopo di passare momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che il Dio Tre volte Santo sia presente fra noi, è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi da soli non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole, l’essenziale della liturgia è il mistero, che è realizzato nella ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentare secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico».

Un esempio pratico di creatività e di perfetta corrispondenza alle parole del papa emerito si è avuto recentemente quando, per rimanere in America Latina, il vescovo di Zacatecas in Messico, monsignor Sigfrido Noriega Barceló, dall’altare della cattedrale, ha imbracciato la fisarmonica e ha intonato, fra l’entusiasmo dei fedeli, Cielito Lindo.

Qualcuno dice e ripete da tempo che la soluzione starebbe invece nell’ars celebrandi che è un altro mantra dei liturgisti progressisti sul quale si scrive moltissimo e si pontifica ma che nessuno sa bene cosa sia e in che cosa consista, uno slogan privo di significato. Il risultato è che quei pochi che si vantano di praticarla clericalizzano ancor di più la liturgia. Sempre Ratzinger nella lettera apostolica Sacramentum Caritatis ha dato la migliore spiegazione di cosa sia: «L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche».

Credits: foto di apertura di Mihai Bursuc da Facebook

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