Magistrati, il nodo è la formazione

Anch’io, come ha fatto Angelo Feltrin nella lettera “Assolti ma le ferite restano” pubblicato sullo Spiffero dell’11 novembre scorso, ringrazio il dottor Padalino per la sua “confessione” resa nel corso del convegno, organizzato dall’ordine dei commercialisti, “Assoluzione e onorabilità del professionista: come tutelare i diritti dell’innocente”. Sono riconoscente perché la “accorata confessione” del magistrato può aiutare a comprendere come un’istituzione fondamentale per la vita democratica degli italiani sia diventata vittima di un’“epidemia” che porta alcuni suoi componenti, anche autorevoli, ad indagare e perseguire “oltre ogni ragionevole dubbio” i cittadini, violando spesso con interpretazioni “ardite” la stessa legge che a spada tratta dovrebbero difendere.

In alcuni passaggi del suo discorso, molto pacato ma efficace, si nota l’entusiasmo dimostrato dal dottor Padalino nell’intraprendere questa difficile attività e ciò mi solletica alcune domande. Il dottor Padalino, entrato in magistratura nel 1991, ci dice che la sua scelta di fare il magistrato risale alla fine degli studi superiori, tanto da rispondere alla solita domanda dei commissari di maturità: “ma che cosa farà da grande?”, “con un po’ di incoscienza e tanta sicurezza: il magistrato! (naturalmente)”. L’avverbio “naturalmente”, usato come inciso dal dottor Padalino, significa, dizionario Treccani, “che non era possibile un comportamento diverso”. Perché un ragazzo di diciotto anni reputa di non avere altra possibilità, altro desiderio di fare il magistrato, quasi fosse una vocazione religiosa? Un giovane magistrato che rabbrividisce a sentire e a vedere la folla che, accalcandosi sotto le finestre della procura di Milano, inneggia ai magistrati del pool di Mani pulite chiedendo loro a gran voce di andare avanti nel mondare la società dalla corruzione, evidenzia quale errore abbiano commesso i cittadini nell’investire impropriamente la magistratura di una missione purificatrice che non gli compete. Il giovane magistrato, però, non si domanda se la responsabilità di quel comportamento sia principalmente dovuto all’atteggiamento mediatico che i magistrati del pool, in quel momento, stavano retoricamente offrendo ai cittadini vestendo i panni di novelli Robespierre.

Il dottor Padalino, che ammette di essersi sbagliato, riteneva che gli indagati, che si lamentavano di essere delle vittime della giustizia, fossero già colpevoli o per lo meno non degni di essere credibili. E questo in base al fatto che, ritenendo sé stesso un magistrato scrupoloso e corretto, anche tutti i suoi colleghi per definizione lo fossero. Forse un giovano magistrato pensa che appartenere alla Magistratura sia già di per sé una condizione sufficiente per essere infallibile? L’enciclopedia Treccani scrive: “Il magistrato requirente (PM) svolge la funzione di parte pubblica rappresentando l’interesse generale dello Stato e, ai sensi dell’art. 112 Cost., ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. In virtù della sua posizione, il PM ha l’obbligo di lealtà processuale; egli, infatti, non deve limitarsi a ricercare le prove favorevoli alla propria ricostruzione accusatoria, ma, in base all’art. 358 c.p.p., deve svolgere anche accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini; conseguentemente non può rifiutarsi di svolgere indagini se queste conducono all’accertamento di fatti favorevoli all’indagato…”.

Nel nostro Diritto (Civil Law) la figura del pm non è assimilabile alla funzione del pubblico accusatore vigente nel Diritto anglosassone (Common Law). Nel nostro diritto il magistrato requirente deve ricercare la “verità” a prescindere dall’innocenza o colpevolezza dell’accusato.

Mi sorge una domanda: quali sono i fattori che inducono dei giovani studenti ad intraprendere l’impegnativo ciclo di studi per diventare magistrato? Qual è l’“humus” culturale in cui si forma il futuro magistrato? Condizione necessaria è lo studio dei codici di legge e di tutto quanto orbita intorno a processi e sentenze, ma non può essere una condizione sufficiente per svolgere una funzione così importante da poter togliere la libertà ad un cittadino. Io credo che, per individuare e valutare i fatti, al pari della ricerca scientifica, sia indispensabile avere nozioni di logica ed organizzazione di processo. Quando ad un magistrato la nostra costituzione chiede di emettere una sentenza di colpevolezza “solo oltre ogni ragionevole dubbio”, significa che, ancor più importante del ricercare e trovare prove di colpa, è il verificare le prove a discolpa per onorare il “ragionevole dubbio”.

Credo che il dottor Padalino sia una persona corretta che, come tutti gli esseri umani, è soggetta a commettere errori e che, come lui stesso afferma essere giusto, dovrebbe rispondere, come tutti, delle conseguenze dei suoi errori. Ritengo che, per ridurre drasticamente il numero di magistrati che commettono errori, sia necessaria un’azione preventiva: bisogna investire sulle analisi psicoattitudinali dell’aspirante magistrato e garantire un percorso formativo dove, oltre alle materie specificatamente tecniche, siano insegnate metodologie di logica ed organizzazione. L’errore non è possibile eliminarlo, esiste ed esisterà sempre, ma la quantità di errori gravi e ripetitivi, come sono stati registrati negli ultimi anni, si possono e si devono diminuire.

Il forte “j’accuse” del pubblico ministero Andrea Padalino contro i comportamenti di certa magistratura non può esimermi dal ricordare Angelo Burzi che il 25 dicembre del 2021 indotto dalla gogna giudiziaria si è tolto la vita. A memento uno stralcio della sua ultima lettera scritta prima del tragico gesto: “Non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l'ansia, l'angoscia che in questi anni ho generato oltre che a me stesso anche nelle persone che mi sono più care. (…) Siccome arrendermi non è mai stata un’opzione, franger non flectar, esprimo la mia protesta più forte interrompendo il gioco, abbandonando il campo in modo definitivo. Serve anche fare un non esaustivo elenco dei personaggi che maggiormente hanno contraddistinto in maniera negativa questa mia vicenda in quasi dieci anni. Dapprima i giudici del primo processo d'appello, i quali, con una sentenza che definire iniqua e politicamente violenta è molto poco, azzerarono la sentenza di primo grado che mi vide assolto per insussistenza del fatto dopo due anni di dibattimento in aula. Poi l'uomo nero, il vero cattivo della storia, il sostituto procuratore che dall'inizio perseguì la sua logica colpevolista, direi politicamente colpevolista”.

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