DOPO IL COVID

"Sarà la riscossa dei piemontardi"

Un territorio di confine, tra Piemonte e Lombardia, che può diventare asse di collegamento. Un ateneo giovane, dinamico e policentrico, in grado di mettere in rete saperi ed eccellenze locali. Le sfide del professor Avanzi, rettore dell'Upo

Un ateneo giovane, un rettore che guarda al futuro. I numeri in crescita e tanti progetti in campo a sostegno di un territorio di confine, “schiacciato tra due colossi come Torino e Milano, ma anche per questo strategico”. A parlare è Gian Carlo Avanzi, classe 1954, rettore dell’Università del Piemonte Orientale e direttore del pronto soccorso dell’Ospedale di Novara. Nata nel 1998, l’Upo è riuscita in un decennio quasi a triplicare i propri studenti, passando dai 5mila del 2008 ai 14mila attuali. Tre le sedi principali, a Novara, Vercelli e Alessandria, con corsi di studio anche a Biella, Alba, Fossano, Asti e Verbania. “Siamo in espansione” assicura il rettore Avanzi, al timone dal 2018, pur conscio di alcune debolezze del suo ateneo, dovute in buona parte alla giovane età: dalla limitata offerta di alta formazione al modesto grado di internazionalizzazione che causano ancora un’alta mobilità passiva degli studenti del posto, sensibili alle sirene di università più blasonate.

Professor Avanzi, lei parla dell’Upo come di un ateneo in crescita con progetti ambiziosi. Il Coronavirus ha in qualche modo interrotto i vostri piani?
«Siamo riusciti a superare la crisi del 2008 rilanciando, raddoppiando i corsi, creando condizioni più vantaggiose per gli studenti, seppur con risorse limitate. Le crisi possono trasformarsi in opportunità ed è quello che proveremo a fare anche stavolta».

In che modo?
«Abbiamo un piano di sviluppo da attuare e per questo faremo leva sui nostri punti di forza, a partire da un territorio dinamico. Abbiamo sviluppato 46 progetti di ricerca sul Covid, legati non solo al virus ma anche alle conseguenze giuridiche, economiche e sociali dell’epidemia; tutti già pubblicati. Ho chiesto alla Regione di finanziare la ricerca, aiutando gli atenei a sostenere con le loro eccellenze le aree in cui sono inseriti».

Lei è nato e ha vissuto la prima parte della sua vita a Torino, poi nei primi anni Novanta si è trasferito a Novara, dove ora guida un ateneo che rappresenta l’Altro Piemonte, quello più lontano dal capoluogo e per certi versi quasi lombardo. Avete patito in questi anni la cosiddetta Torinocentricità della regione?
«È sotto gli occhi di tutti che le grandi politiche sono sempre state rivolte allo sviluppo del capoluogo, a partire dalla Fiat. Questo ha fatto sì che i territori circostanti avessero sempre meno risorse. Così si sono organizzati autonomamente rivendicando proprie peculiarità. Oggi avoler guardare il bicchiere mezzo vuoto, diremmo che siamo schiacciati tra due grandi colossi, Torino e Milano. Ma a guardarlo mezzo pieno siamo in una traiettoria importante su cui passano merci e persone. Tanti della Lombardia, per esempio, vengono a studiare e lavorare da noi. Siamo i “Piemontardi”».

Lei tiene molto all’ancoraggio con il suo territorio, ma come lo declina?
«Ritengo fondamentale che l’Università proponga un percorso di studi affine alle richieste del mercato. Così il prossimo anno apriremo un corso di Sostenibilità ambientale ed economica e un altro rivolto all’innovazione digitale. A sigillo di un legame sempre più stretto tra l’Università e le aziende del Piemonte Orientale nel nostro cda c’è un rappresentante della Novamont, azienda che ha ambizioni di sviluppo importanti nel Novarese. Inoltre l’interazione con il territorio e il mondo produttivo risiede in quello che viene definito il pubblic engagement o le attività della quarta missione, attraverso cui conferiamo la possibilità ai nostri interlocutori di usufruire della nostra competenza per creare insieme progetti di sviluppo».

Faccia un esempio.
«Stiamo lavorando per individuare i principali obiettivi nello sviluppo di infrastrutture comunicative e di reti. Ancor più dopo questa crisi economica avremo bisogno di fibre ottiche, comunicazioni veloci, perché potremmo andare incontro a un progressivo svuotamento dei grandi conglomerati urbani. Dobbiamo ripensare il nostro modo di vivere».

Cosa intende nello specifico?
«Parlo di una economia sempre più fondata sullo smart working e slegata dai grandi centri. Molte aziende ed enti pubblici hanno scoperto i vantaggi del lavoro da casa ed è probabile che si proseguirà in questo solco anche dopo l’emergenza. Molte persone potrebbero lavorare per un’azienda di Novara o Vercelli da un’abitazione distante svariati chilometri non essendo richiesta una presenza costante: potremmo avere sempre meno pendolari, mentre aumenteranno in proporzione i piccoli spostamenti, che richiedono altri mezzi, come le biciclette elettriche. Cambierà il sistema dei trasporti, della logistica, del lavoro. La società sarà un po’ diversa da come la conosciamo».

E poi c’è una questione sanitaria…
«Certo. Questa epidemia sembra volgere alla fine e vedremo se ci sarà una coda autunnale. Ma non sarà l’ultima, giacché di spin-off del virus da animale a uomo ce ne sono già stati diversi e potrebbero aumentare. Noi ci dobbiamo preparare: in questo senso i grandi conglomerati urbani nati a fine Ottocento con la grande industria non hanno più senso oltre a essere pericolosi di fronte a una epidemia».

Facciamo un passo indietro. Da accademico e medico, che giudizio dà della gestione dell’emergenza in Piemonte?
«Largamente sufficiente, al Piemonte darei 7. Ho partecipato al primo comitato tecnico scientifico e posso dire che è stato un bel problema organizzare un sistema sanitario così parcellizzato e “ospedale-centrico”. Quel che è mancato è stata la comunicazione corale degli organi centrali e una strategia comune nel reperire i dispositivi di protezione. La verità è che questa catastrofe ha messo a nudo un sistema sanitario che deve essere profondamente rivisto, la riduzione dei posti letto che ha seguito logiche solo economiche è stata un elemento deteriore. Dobbiamo riorganizzare gli ospedali ma soprattutto la medicina del territorio».

Parliamo di Fase 2: l’Upo riaprirà a settembre?
«Mi atterrò scrupolosamente ai dettami di decreti e leggi. Detto questo auspico un’apertura dell’ateneo, ovviamente nel rispetto delle regole di distanziamento. La lezione in presenza conferisce al rapporto didattico un valore aggiunto che nessun ammennicolo o smartphone potrà mai dare. Personalmente sono per aprire quanto prima, far tornare gli studenti a fare ricerca. E poi non è solo una questione didattica».

Di cosa parla?
«La presenza di studenti nelle nostre città genera fermento e vitalità in una città. È una questione sociale, culturale ed economica perché i ragazzi prendono case in affitto, mangiano e bevono nei nostri locali, visitano i nostri musei e i cinema. Pensi che noi, nonostante la giovane età, abbiamo già il 40% di fuori sede da tutta Italia e anche dall’estero: tenerli a casa è un peccato mortale. Ecco, se qualcuno mi chiede la prima cosa che le Università potrebbero fare per questa Fase 2 io rispondo: il nostro mestiere, contribuendo a rivitalizzare il territorio in cui siamo inseriti e risollevare la sua economia».

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