PRIMO MAGGIO

(Non) lavorare stanca

La pandemia non ha solo tagliato redditi e occupazione. I sentimenti prevalenti nel mondo del lavoro sono stress, ansia e preoccupazione per le incognite del prossimo futuro. Maggiormente colpiti autonomi e dipendenti a tempo determinato. Coppa (Ascom) sferza la politica

È La grande stanchezza il film che racconta, in presa diretta, il lavoro che c’è, che non c’è più, che rischia di cambiare o sparire dopo più di un anno di pandemia. È proprio questa condizione, che ribalta la celebre massima pavesiana, individuale e involontariamente collettiva, ad attraversare tutto il mondo del lavoro: dai garantiti ai più fragili. Tutti stremati da cambianti imposti e subiti, poco o nulla o comunque non abbastanza rincuorati da quelli attesi e ancora incerti e confusi.

Una stanchezza, come emerge dalla lettura dell’analisi effettuata a metà aprile dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro supportata dalle rilevazioni di Swg, che diventa preoccupazione nel 29,6% dei casi, ma anche rabbia (8,2%) e addirittura disperazione nel 4,1% tra quei lavoratori che, della crisi, hanno pagato il costo più alto. La fotografia, recentissima, raffigura un mondo del lavoro – dipendenti, professionisti, imprenditori, autonomi, precari – dove l’8% è inattivo almeno da tre mesi, il 24% pur lavorando, lo fa in condizioni anomale, con orari ridotti, giorni alternati, non essendo tornato alla piena normalità. Complessivamente, un terzo dei lavoratori (32,6%) vive ancora una situazione emergenziale.

Lo studio attesta come oltre un anno costellato di provvedimenti di chiusura e limitazioni abbia avuto sui redditi di una parte del mondo del lavoro un effetto devastante. il 32,5% dei lavoratori ha visto diminuire il proprio reddito, il 10,8% per un importo superiore al 30%, in un quadro estremamente differenziato di situazioni.

I dati confermano per l’ennesima volta come ad essere maggiormente colpiti siano gli autonomi: tra questi, il 53,5% segnala una riduzione delle entrate, che per più di un quarto (25,5%) è stata superiore al 30%. Non meno pesanti gli effetti sull’economia famigliare dove sono aumentato in maniera fortissime le difficoltà: il 56,1% dei lavoratori afferma di avere avuto problemi a far fronte alle spese famigliari e se il 44,2% ha ridotto quelle non necessarie, il 16,7% ha invece dovuto addirittura tagliare consumi essenziali, come salute o alimentare. Stanchezza anche di fronte alla tanto auspicata ripartenza, all’uscita dall’incubo grazie alla campagna vaccinale e a quelle misure di contenimento su cui ancora ci si divide e che continuano a incidere pesantemente su molti comparti.

Dallo studio dei consulenti del lavoro emerge un dato preoccupante: solo il 14,3% si dichiara pronto a ripartire. La paura per l’incognita che riserva il futuro del lavoro prende il sopravvento: nel Paese circa un milione, tra dipendenti ed autonomi, è convinto di perdere il lavoro nei prossimi mesi. E se a questi si aggiungono quanti temono che lo sblocco dei licenziamenti abbia ricadute anche su di loro, si sommano altri 2,6 milioni di dipendenti che vedono a forte rischio il proprio futuro lavorativo. Pessimismo (33%) e preoccupazione (39,6%) per il lavoro lasciano poco spazio a sentimenti di fiducia e ottimismo (27,5%).

Sentimenti più che giustificati, specie in chi vive situazioni lontane da quelle dei cosiddetti garantiti. Se tra gli occupati dipendenti a tempo indeterminato, il 79,2% sta lavorando stabilmente, il 15,3% solo alcuni giorni o con orario ridotto, mentre il 5,5% non lavora, situazione decisamente peggiore sul fronte degli autonomi: solo il 57,2% è ritornato alla normalità, il 30,1% lavora ad orario ridotto mentre il 12,7% ha al momento sospeso l’attività. Peggio ancora per i lavoratori a termine, precari e collaboratori: solo il 34,9% lavora stabilmente, mentre la maggioranza (52,9%) con modalità anomale, intermittenti o ridotte e ben il 12,2% non sta lavorando. Guardando alla geografia degli effetti prodotti dalla pandemia e dalla misure adottate, si scopre che un maggiore impatto negativo sul reddito lo si ha al Nord dove dichiara una diminuzione delle entrate il 39,7% nel Nord Est, il 33,8 nel Nord Ovest mentre l’indice cala al Centro (30,6) e ancor più al Sud (27,4). Ed è la fascia di età oltre i 54 anni quella maggiormente colpita con una accentuazione nelle donne rispetto agli uomini.

Un’Italia, sia pur con differenze anche importanti, colpita senza eccezioni da quella crisi economica non meno semplice da affrontare e superare rispetto a quella sanitaria. Mettendo la lente d’ingrandimento sul Piemonte dove ancor prima del Covid e indipendentemente dal Covid sono molte le situazioni di crisi occupazionale, i dati già drammatici potrebbero diventarlo molto di più se dovessero trovare conferma le previsioni dell’ultima congiunturale dell’Ascom: già 22mila posti di lavoro andati in fumo nel corso del 2020, ma presto la cifra potrebbe salire fino a superare quota 82mila. Le imprese del commercio e del turismo ammettono che, quando sarà possibile con la fine del blocco dei licenziamenti per legge, oltre una su cinque potrebbe ridimensionare il proprio organico. Il settore dove questo rischia di accadere con maggiore probabilità è proprio quello al centro delle decisioni e delle polemiche ormai da giorni, ovvero quello della ristorazione con una previsione di riduzione di impieghi del 42%. Ma anche il turismo preannuncia riduzioni del personale attorno 37%, così come il commercio non alimentare (27%) e il comparto dei servizi alle persone (26%).

“Tutti ci auguriamo che questa proiezione non si concretizzi, ma serve un’inversione della situazione che ci si augura arrivi dai vaccini, ma anche da scelte adeguate – sottolinea la presidente di Ascom Torino Maria Luisa Coppa –. Penso al passaporto vaccinale che consenta maggiori movimenti a chi è stato vaccinato o ha acquisito l’immunità per aver fatto il Covid, che consenta di fare le vacanze, di andare nei ristoranti anche all’interno perché come stiamo vedendo la limitazione al solo esterno è troppo penalizzante. Ma anche altre misure vanno riviste”. Chi guida da tempo l’associazione del commercio ribadisce come “nessun imprenditore, grande, medio o piccolo, vuole licenziare rinunciando a quello che a un suo patrimonio, ma sui provvedimenti ci vuole un cambio di rotta. “Anche sullo smart working che è un effetto collaterale negativo per l’economia”. E poi, rimarca la presidente di Ascom, “servono decisioni programmate, calcolando gli effetti. È possibile decidere la chiusura dei supermercati, anche quelli di medie dimensioni per il 1° maggio? Chi ha preso questa decisione appena meno di due giorni prima lo sa che queste attività fanno acquisti di alimentari deperibili? Questo significa non sapere cosa vuol dire fare impresa”.

La stoccata è diretta al presidente della Regione Alberto Cirio che giovedì sera aveva firmato l’ordinanza. Ieri il Tar ne ha sospeso l’efficacia, accogliendo il ricorso di Federdistribuzione. “Provvedimento immotivato e incoerente”, quello del governatore, a detta dei giudici. Ennesima scena della grande stanchezza (di una parte) del mondo del lavoro, tra rabbia e disperazione.

print_icon