Una casa per i moderati

Conservatori d’Italia unitevi! Fa pensare la recente intervista di Riccardo Molinari al Corriere della Sera sul futuro della Lega: tra orizzonti strategici e allunghi tattici le parole del capogruppo salviniano alla Camera, fortificate da un colpo d’ala di dialettica interna al suo partito, sembrano contornare in una prospettiva di medio periodo l’identità di un soggetto politico dalle nostre parti da sempre nebuloso, ma di cui si avverte l’irrevocabile necessità. D’altronde, che il sistema dei partiti in Italia sia geneticamente incompiuto, arretrato e instabile, proprio per la mancanza di entità costitutive fondamentali, non è certo una novità. Ci era tornato sopra alcuni mesi fa, sempre sul quotidiano di Via Solferino, Ernesto Galli della Loggia con un editoriale dal titolo: “La destra moderna che serve”. Curioso che negli stessi giorni uscisse sul “Foglio” un pezzo interessante a firma di Alessandro Maran, in cui il deputato del Pd tratteggiava il profilo di un altro soggetto vacante che servirebbe, in sintesi una sinistra moderna. Come dire, a ciascuno il suo.

E così, mentre Letta sta cercando di impostare una socialdemocrazia alla tedesca o un neolaburismo alla Tony Blair, pur non resistendo a forti infatuazioni tecnocratiche, il liberalsocialista Galli della Loggia si fa carico niente di meno che di sollecitare la trasformazione del centro-destra italiano in uno strutturato ed unitario partito conservatore, avvisando con un mix di ironia e scetticismo di essersi concesso “un’escursione nei territori dell’utopia”. Non solo, ma nei giorni scorsi ha rinvigorito il suo appello, denunciando la paradossale intolleranza incarnata da quei presunti progressisti che, “per antica mancanza di educazione democratica”, bollano come reazionaria qualsiasi opinione dissenziente rispetto al mainstream, alimentando un clima che rende impossibile “una voce di orientamento conservatore opposta al dominio del politicamente corretto”.

Eppure tanto utopico non è ragionare nel nostro Paese di un simile partito ispirato al liberalismo classico europeo. Intanto perché, al di là dei luoghi comuni, lo spirito dell’utopia non è un fantasticare tra le nuvole di mondi impossibili, ma piuttosto la certezza di qualcosa di indispensabile che ancora non si vede, un complesso di idee orientate da un fiuto previdente per il buongoverno delle cose concrete. Quello che per noi oggi è il Welfare, ad esempio, è stato per secoli una richiesta utopica di protezione sociale e di riconoscimento di diritti individuali e collettivi. La strada per la sua affermazione è segnata da un lungo e drammatico conflitto sociale; la sua funzionalità spesso piegata a consorterie clientelari. Però, oggi che il sistema c’è, pur vacillante sotto i fendenti e le drammatiche conseguenze della pandemia, un partito conservatore italiano non potrebbe che difenderlo e rafforzarlo con una visione solidale e una gestione efficiente, a maggior ragione rispetto alle politiche dei tagli a trazione neoliberista, che hanno reso ancor più problematica l’emergenza sanitaria.

Non è facile immaginare come costruire da noi il nuovo soggetto del conservatorismo e sarebbe comunque sbagliato configurarlo come la sommatoria degli attuali partiti di centro-destra. Anche se fosse praticabile, questa via non sarebbe esaustiva, mentre la convocazione di una Costituente per il partito conservatore, preceduta da un lavoro di studi e ricerche sulle organizzazioni partitiche della “famiglia conservatrice” in Europa e nel Nord America, per quanto improbabile possa sembrare adesso, sarebbe forse lo strumento più idoneo. Profonde ragioni storiche, radicate nel Risorgimento - prima fra tutte la persistenza di tante variegate classi dirigenti regionali a dispetto dell’unificazione - hanno inibito per centosessant’anni l’emergere di un’autentica spinta liberale organizzabile in una forma- partito di vasta ricaduta. Ma qui sta il punto. C’è una parola-chiave che andrebbe riscoperta, facendo piazza pulita dell’uso ideologico che ne è stato fatto: la parola “nazione”. Nella Costituzione è usata solo tre volte in tre articoli distinti - 9, 67 e 98 – che, se messi in relazione, danno origine ad un quadro coerente di valori sia etici che programmatici: dalla promozione della cultura, della scienza e della tecnica alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico; dalla libertà di mandato garantita ai parlamentari all’esclusività di servizio collettivo assegnata ai pubblici impiegati. Vi sono tutti gli elementi per enucleare il principio della formazione di una classe dirigente nazionale (politici, burocrati, magistrati, militari e diplomatici) che incarnerebbe anche da noi quel modello di autorevolezza, basato sulla competenza e sul merito, di cui sono sempre andati fieri - in Francia, in Germania, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti - i gruppi dirigenti conservatori. Modello incardinato sulla concertazione tra i cavalli di razza della politica e la razza padrona industriale e finanziaria, laddove invece nella nostra vicenda repubblicana tra questi gruppi di potere - Andreotti e Cuccia, per dirla in termini ormai simbolici - hanno prevalso diffidenza e antipatia, quando non addirittura inimicizie e ostilità in campo aperto. E a farne le spese sono stati i piccoli e medi imprenditori, le filiere dei distretti produttivi locali, i cui successi hanno fatto gridare al miracolo, senza che si apprestassero misure di sostegno statale all’altezza di un Paese industriale avanzato.

Da qui si potrebbe partire per immaginare il ruolo e la valenza di una moderna destra conservatrice, in nome di una cultura capace di conciliare tradizione umanistica e innovazione tecnologica e di segnare nelle intenzioni realizzative alcuni punti fermi. Come già sosteneva più di vent’anni fa in un suo saggio Marcello Veneziani, la democrazia dell’alternanza richiede identità politiche contrapposte, affinché la fisiologia parlamentare funzioni secondo regole di correttezza. E se da una parte vi sono i progressisti nostrani, innamorati del cambiamento in quanto tale e non della sua effettiva incidenza, e di un’Europa intesa più che altro come maschera buonista su un volto tecno-elitario, sul versante opposto occorre un’alternativa incentrata sulla volontà di edificare una comunità nazionale articolata in comunità locali depositarie di poteri reali. Qualunque altra sussidiarietà, che non si conformi ad un sistema bilanciato di diritti e doveri, non può che rivelarsi uno sterile esercizio accademico. Una piattaforma così solida consentirebbe ad un partito conservatore di avviare un autentico riequilibrio territoriale ed economico tra Nord e Sud, supportando la produzione industriale, realizzando infrastrutture per la mobilità e valorizzando l’attività agricola. Perché è proprio l’arretramento di quest’ultima all’origine dell’abbandono dei territori interni, a cui la retorica di una certa sinistra ha pensato di porre rimedio con soluzioni di green economy e di turismo sostenibile oggettivamente insufficienti. Gli argomenti sono tanti e troppi per questa circostanza. Certo non si può prescindere dal fatto, acclarato dalla storia, che tra i componenti della cultura conservatrice figurino, sullo stesso piano del liberalismo laico, i valori delle tradizioni cristiane. Da questa angolazione non c’è forza conservatrice nel mondo occidentale che, superate le pregiudiziali del laicismo anticlericale, non annoveri tra i suoi fondamentali un’etica religiosa di riferimento. E anche se da noi la nascita dello Stato unitario ha avuto nell’integralismo cattolico il suo più accanito antagonista, mezzo secolo dal secondo dopoguerra di pratica di governo tra Democrazia Cristiana e partiti laico-riformisti e di consociazione con il Partito comunista, ha permesso di archiviare molti capitoli del passato remoto. Circa il versante poi dell’organizzazione partitica, i modelli sono molteplici: dal “Rassemblement” gaullista al Conservative Party britannico fino al Grand Old Party dei repubblicani statunitensi. Ipotesi affini alla sensibilità e agli intendimenti del centro-destra italiano e al suo istinto di coniugare le istanze del decisionismo con quelle del popolarismo.

C’è, però, un tassello di cui il centro-destra è privo e in assenza del quale non si va lontano: un luogo o più luoghi di pensiero, di elaborazione culturale, esattamente nel solco delle fondazioni sia pubbliche che private, su cui il centro-sinistra ha impiantato con ferreo realismo la sua forza gestionale, trasformativa e mediatica. Anche qui, tuttavia, le esperienze non sono mancate. Riportando il discorso alle dichiarazioni di Molinari, verrebbe da richiamare l’Isap, l’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica nato alla fine degli anni ’50 e a lungo diretto da Gianfranco Miglio, personaggio che la vulgata più faziosa ha ridotto ad una specie di mefistofele dalle pensate bislacche e avventurose, gettando quasi nel discredito una figura tra le più eminenti e avvincenti della politologia del secondo ‘900 (non ultimo il suo proposito inascoltato di creare una grande scuola di governo ispirata all’Ena francese). Pur con il suo fare tribunizio, Umberto Bossi ne colse le dirompenti proposte a favore del secessionismo leghista della prima ora, senza il quale difficilmente si sarebbe ancora parlato - sebbene in modo contraddittorio ed irrisolto - di regionalismo e persino di autonomie locali. Considerazioni che valgono anche per la Fondazione Bruno Salvadori, della cui istituzione fu artefice lo stesso Bossi, in memoria dell’autonomista valdostano e del suo lascito intellettuale sull’Europa dei popoli. Non è detto che nuove formule possano funzionare. Nel caso specifico bisognerebbe sciogliere innanzitutto il nodo intricato delle rispettive e difformi collocazioni dei partiti di centro-destra in seno ai gruppi parlamentari di Strasburgo. Ma se le cose non funzionano bisogna avere l’umiltà di riconoscere che si è stati incapaci di pensarle, perché le idee veramente buone sono quelle che riescono a farsi applicare. Un partito conservatore potrebbe essere un’idea di questo tipo, se riuscisse a persuadere gli italiani dell’enorme e benefica influenza che potrebbe esercitare sulla vita delle istituzioni.

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