Tentazioni autoritarie

Gli eventi culturali e sportivi internazionali animano le città che li ospitano, riempiendo le loro piazze e strade con i colori della moltitudine proveniente da ogni angolo del mondo. Eurovision ha portato a Torino giornate frizzanti, conducendo la capitale subalpina in una dimensione molto distante da quella del quotidiano.

Cantanti, musicisti, turisti hanno letteralmente invaso il centro storico, spingendosi anche in zone raramente interessate da flussi di visitatori esteri. Il quartiere di Santa Rita, ad esempio, si è trovato ad ospitare le serate di gara, rivivendo per alcuni giorni l’esperienza delle Olimpiadi del 2006. I residenti hanno di certo patito qualche disagio e una grande penuria di posti auto, carenti anche nella normalità, ma si sono ritrovati tra musicisti e giornalisti, diventando parte di una diretta televisiva vista in tantissimi Paesi.

La cerimonia d’inaugurazione e il red carpet hanno consentito ai torinesi di conoscere una manifestazione dalle radici molto lontane, la cui prima edizione risale a 66 anni fa, ma che non ha mi avuto un grande risalto sui media e neppure indici di ascolto televisivi incoraggianti.

Eurovision, in questa edizione, non è stata solo un evento musicale, ma pure lo specchio in cui si è riflesso il nostro continente. La manifestazione, infatti, a Torino ha mostrato i volti dell’Europa, rivelando un imbarazzante aspetto provinciale proprio durante la cerimonia inaugurale dove, incredibilmente, nessuno ha invitato l’ex sindaca, Chiara Appendino: colei che è riuscita nell’intento di portare la gara nella città da lei amministrata e che buona prassi avrebbe voluto sul palco dei saluti iniziali.

Gli artisti, inoltre, si sono presentati sulla scena con strumenti non collegati agli amplificatori, testimoniando che si stavano esibendo su basi musicali e coristiche preregistrate, pur cantando senza fare uso del playback. L’assenza di note dal vivo ha declassato la kermesse, posizionandola un gradino al di sotto delle sagre paesane. Infine, sulla vittoria della band proveniente dell’Ucraina non c’erano dubbi, ed era un epilogo facilmente immaginabile sin dall’esclusione dei russi dalla competizione. L’ideale, per l’aspetto politico della manifestazione, sarebbe stata un’affermazione netta del gruppo di Kiev grazie al determinante, e massiccio, voto del pubblico da casa, come infatti è avvenuto. Un trionfo popolare da copione che ha rispettato tutti i canoni della retorica di guerra, compreso il saluto simile a quello nazista mostrato alle platea dal cantante appena impalmato, e che al contempo ha cancellato definitivamente il binomio Cultura-Pace.

I tempi in cui John Lennon entusiasmava il pubblico, cantando la magnifica Immagine, hanno lasciato il passo all’omologazione della demagogia bellica, e l’andare controcorrente ha abbandonato il modo del rock. L’opinione non allineata non è più tollerata; la gara musicale ha mostrato il volto della banalità, degli esiti scontati, della delusione di bravi artisti, obbligati a fare un passo indietro per consentire alla politica di essere l’unica grande vincitrice.

Pian piano, la nostra società sta raggiungendo il punto di non ritorno, quello in cui il dissenso torna ad essere un tabù. A riprova, la risoluzione presentata dalla Commissione di Vigilanza della Rai, un documento dagli intenti chiari poiché inequivocabilmente liberticidi. La proposta si dichiara conseguenziale alla presa d’atto della situazione di pericolo in cui versa l’Europa, paragonata all’emergenza sanitaria provocata dal Covid, e propone l’unica misura possibile per bloccare la disinformazione: non ospitare nei programmi personaggi dalle posizioni estremistiche e chi propaganda notizie false. Risoluzione che stride davanti alla grande produzione di fake della retorica di guerra del Governo, e ridicola appena si valuta che in questo caso sarà il potere a stabilire quali siano le notizie vere e a separarle da quelle etichettate con la dicitura “Falsa”.

Il potere esecutivo, nel caso la risoluzione venga approvata, indicherà la verità assoluta e la diffonderà, mentre chi non si piegherà alla medesima sarà bandito dagli studi televisivi pubblici.

Riflettendo su queste ultime righe, mi sono chiesto istintivamente se il Consiglio dei Ministri fosse in mano ai fedelissimi di Licio Gelli, agli ammiratori del Piano di Rinascita Democratica. Ma ho immediatamente ritenuto che fosse impossibile tale ipotesi, visto che la maggioranza parlamentare è espressa soprattutto da deputati e senatori eletti nelle fila del M5s e del Pd. Può essere però che l’asse della politica si sia ribaltato e la libera informazione non appartenga più al bagaglio ideale del campo progressista, ad esclusione dei pochi sanatori e deputati che ancora si battono per la sua difesa.

Le tentazioni autoritarie sono diventate il disvalore di chi vantava l’eredità della lotta di Liberazione: quello che poteva essere un dubbio è diventato, giorno dopo giorno, amara certezza.

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