SACRO & PROFANO

Repole pescato fuori dalla terna, penna Viola per papa Francesco

Retroscena sulla nomina dell'arcivescovo di Torino, il suggerimento di monsignor Castellucci. Il prelato biellese, emerito di Tortona, è l'autore della lettera apostolica "Desiderio Desideravi". Un nuovo cerimoniere nella curia di Torino

Una delle parrocchie più problematiche di Torino è senza dubbio quella di Santa Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare posta al centro di quel tratto della Barriera di Milano funestata dalla microcriminalità, dove gli spacciatori pare vi regnino indisturbati al punto che anche le forze dell’ordine spesso faticano a mantenere la convivenza fra le diverse etnie. Il quartiere è oggetto da sempre delle promesse di ogni amministrazione e in verità i progetti di riqualificazione dell’area non mancano, ma fino adesso sono rimasti inattuati, mentre il degrado permane. La parrocchia della Pace, commendata per decenni agli Oblati di Maria Vergine del Venerabile Lanteri, era diventata negli ultimi tempi una semplice dispensatrice di aiuti di ogni genere con la comunità posta come sotto assedio e sovente intimidita.

Quando nel 2018 i religiosi se ne andarono, l’arcivescovo Cesare Nosiglia la affidò ad un terzetto di preti giovani che, con l’ardore dei missionari, ne hanno rialzato le sorti, attuando, non senza difficoltà, una pastorale ri-evangelizzatrice: don Stefano Votta, classe 1976, ordinato nel 2005, il parroco, don Luca Ramello, classe 1976, ordinato nel 2003, e don Giuliano Naso, classe 1986, ordinato nel 2014, collaboratori. Insieme hanno ridato animo e speranza – si potrebbe dire identità se non fosse parola proibita – ai sempre più spauriti e sparuti cristiani del quartiere. In particolare don Luca, che guida la pastorale giovanile della diocesi – la “linea Repole” lo manterrà al suo posto? – si può dire sia stata la persona giusta al posto giusto. Dotato di naturale appeal, sempre intento ad animare incontri, ritiri e pellegrinaggi è apparso subito alla gente come colui che non fa il prete ma lo è, convinto di quello che dice e vive e lo trasmette ai giovani con un linguaggio adatto ai tempi ma non cedevole alle mode. Così pure don Naso, il quale sarà nominato amministratore della parrocchia di San Leonardo Murialdo per sostituire don Roberto Volaterra. Alla Pace prenderà il suo posto don Alessandro Rachiteanu, classe 1991, ordinato nel 2019, attualmente studente di liturgia a Padova e destinato nientepopodimeno che a diventare cerimoniere arcivescovile, il ruolo attualmente ricoperto dall’immarcescibile monsignor Giacomo Martinacci. La talare paonazza sarà così sostituita dallo svolazzante camicione con zip. Desiderio Desideravi.

Voci romane di una certa attendibilità indicano in monsignor Vittorio Viola, vescovo emerito di Tortona, attualmente segretario del dicastero del Culto Divino, l’autore della lettera apostolica sulla «formazione liturgica del Popolo di Dio». Monsignor Viola, biellese, francescano minore, classe 1965, ordinato prete nel 1993, sodale di uno dei più arrabbiati liturgisti, il misericordioso biellese monsignor Alceste Catella che, quando era vescovo di Casale, cacciava in malo modo i fedeli che gli chiedevano, in perfetta obbedienza a papa Benedetto XVI – quella stessa obbedienza che pretendono adesso per papa Francesco – di poter avere la Messa antica. Monsignor Viola pare porti al dito l’anello episcopale di monsignor Annibale Bugnini, autore della riforma liturgica postconciliare, sospettato di appartenere alla massoneria e per questo allontanato da Paolo VI che lo inviò internunzio in Iran.

Per la sua propensione alla commozione, Viola era conosciuto in diocesi come «una lacrima sul viso» ed è noto ai suoi confratelli religiosi per le omelie svenevoli e ampollose che circolano pure in rete. Preconizzato per Torino come il candidato ideale dei “boariniani”, adesso sembra che a Roma, dovendo occuparsi di scrivere documenti, abbia ritrovato, come tutti i timidi, la grinta del decisore. La lettera Desiderio Desideravi, scritta dal commosso vescovo biellese ha infatti il fine – irrealizzabile – di seppellire e togliere cittadinanza nella Chiesa a quel rito che Benedetto XVI aveva riconosciuto come forma «extraordinaria», alla pari con quella «ordinaria» del Messale di Paolo VI. Non per nulla, nel lungo documento, del papa teologo che ha dedicato alla liturgia testi capitali, non compare nemmeno una citazione. Si potrebbe dire che se il mandante dell’assassinio del rito antico è il papa della misericordia, il killer è il vescovo della lacrima facile. Come possa essere credibile una Chiesa tutta sinodale, democratica, decentrata, una Chiesa in cui, come ha detto Francesco nell’omelia dei santi Pietro e Paolo «tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri», che adotta simili provvedimenti, rimane inspiegabile. Fa sempre bene comunque rileggere Sacrosanctum Concilium § 4 dove si dice che: «Il Sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la Santa Madre Chiesa considera come uguali in diritto e dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti; vuole che in avvenire essi siano conservati ed in ogni modo incrementati».

Sul settimanale diocesano di Torino, il principe dei liturgisti nostrani, don Paolo Tomatis ha commentato la lettera del papa – con il consueto e stucchevole refrain dello «stupore» - mettendo in campo quegli argomenti che risuonano da sessant’anni e che hanno dato finora ben scarsi risultati ma sui quali invece bisognerebbe seriamente interrogarsi. Che la riforma liturgica del 1969 sia aderente al dettato del Concilio è argomento tuttora controverso e non sarà Desiderio Desideravi a chiudere la discussione, un po’ come in campo progressista avviene per il sacerdozio femminile ove, nonostante i pronunciamenti solenni e definitivi di San Giovanni Paolo II – di ben altra portata rispetto alla lettera di Francesco – si continua tranquillamente a disquisirne e a farne oggetto di nuove «aperture», vedasi sinodo tedesco e le nostre assemblee presinodali, anche torinesi. In questo caso però lo Spirito Santo soffia dalla parte giusta. La domanda è semplice: se l’unità della Chiesa si fonda sulla fede, chi ama il Messale del 1962 professa la fede della Chiesa?

A Novara, intanto, il vescovo Franco Giulio Brambilla ha scatenato la persecuzione contro don Alberto Secci e un altro sacerdote colpevoli di continuare a celebrare la Messa Antica. Sembra che su di loro arriveranno provvedimenti gravi e “il caso” sia stato deferito a Roma. C’è chi si domanda i motivi di tanta durezza dopo anni di tolleranza. Che il pingue e rubizzo vescovo di Novara, mostrando tanto zelo nella repressione antitradizionale, voglia recuperare quelle benemerenze di cui un tempo godeva presso la corte di Santa Marta e che sono andate scemando nel tempo? Parigi val bene dunque la repressione di qualche ignorante prete di montagna… E poi io sono io…

Un teologo della vecchia scuola romana, da non molto scomparso, si chiedeva come questi vescovi ideologi avrebbero risposto all’Eterno Padre che gli domandava come mai, invece di evangelizzare o pensare a salvar l’anima loro, si accanissero contro la Messa e contro i preti che osavano celebrarla. Iniziavano così a spiegargli le meraviglie della riforma liturgica, dell’ars celebrandi, della creatività, del pensiero di Andrea Grillo, delle sperimentazioni etc. Se poi, nonostante tali portenti, le chiese si erano svuotate e i riti perso ogni significato, la colpa era da addebitare alla mancata educazione dei fedeli i quali, ancora dopo quasi un secolo dal Vaticano II non capivano nulla di liturgia e di bellezza e, naturalmente, a quei cattivi dei tradizionalisti i quali – imperterriti come i modernisti del Novecento – non si arrendevano nemmeno sotto le bombe della persecuzione, aspettando di riavere cittadinanza nell’Ovile di Cristo. Di fronte a tale risposta, il Padre si rendeva conto che la loro presunzione era invincibile ed erano in fondo in buona fede. Così li lasciava ritornare alle placide passeggiate nei verdi pascoli del Paradiso. Ad impossibilia

Ora che è avvenuta, si iniziano a conoscere meglio i retroscena della nomina dell’arcivescovo di Torino. Nella lettera inviata dal nunzio apostolico a vescovi, preti e laici per il sondaggio da effettuare in vista dei Promovenda, era chiaramente espresso di non indicare nominativi di appartenenti al clero di Torino. Così avvenne e pertanto il nome di Roberto Repole non entrò nelle terne. Vi faceva invece parte il teologo e arcivescovo di Modena, monsignor Erio Castellucci, il quale, consultato dal papa che lo ha in grande stima, caldeggiò il nome del suo amico e collega torinese, senza dimenticare di ricordare al Santo Padre che egli era stato il coordinatore dei famosi «libretti» che l’emerito Benedetto XVI, visti i nomi degli autori – uno dei quali aveva addirittura promosso un istituto teologico per combattere il suo pensiero – non volle nemmeno leggere e commentare.

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