SACRO & PROFANO

Taglio delle parrocchie, Repole fa scuola (e scala la Cei)

Una "nuova forma" di Chiesa imposta dalla carenza di vocazioni. Anche il vescovo di Pescara segue il collega torinese. Traballa la poltrona del presidente del Tribunale ecclesiastico. Le critiche "progressiste" a Papa Francesco. Deminutio dell'Opus Dei

La “Lettera alla Chiesa di Torino” del neo-arcivescovo Roberto Repole del 23 giugno scorso, relativa al «ripensamento della presenza ecclesiale sul territorio» in cui si avvia il processo che porterà a una drastica riduzione delle parrocchie della diocesi, inizia a fare scuola. Ad essa si è infatti esplicitamente riferito l’arcivescovo di Pescara-Penne, monsignor Tommaso Valentinetti, in un suo messaggio al clero, invitando   a riflettere sul testo del suo confratello torinese. Deve aver colpito l’argomentazione con la quale si maschera la presa d’atto di una sconfitta con l’accettazione – come nel caso della carenza di vocazioni – di chissà quale «sfida» per arrivare ad una «nuova forma» di Chiesa. D’altro canto, allorché si assume il paradigma della modernità come orizzonte unico e imprescindibile e si abbandona quella conflittualità profetica che dovrebbe caratterizzare il cristianesimo, non rimane che l’adattamento al mondo e la logica della cura fallimentare. Lo ammette in fondo lo stesso Repole quando afferma che: «sarà difficile nel prossimo futuro condurre una vita cristiana in cui sia evidente a noi stessi e agli altri che cosa siamo». Una prospettiva realistica quanto inquietante. La lettera del vescovo di Pescara segnala anche, secondo alcuni, il formarsi di una nuova “cordata” all’interno della Cei e c’è chi pensa che nel 2023 il nostro arcivescovo potrebbe diventare il segretario della commissione per la dottrina della fede. Videant Consules

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in visita a Torino per i duecento anni della Scuola allievi Carabinieri, ha festeggiato il suo 81° compleanno con l’amico Ernesto Olivero, fondatore del Sermig. Dopo la visita a Superga – ormai saldo possesso oliveriano – dove l’immancabile bandiera della pace fungeva da triste palliotto d’altare, si è tenuto il pranzo all’Arsenale della pace. In tale contesto, ha stupito l’assenza dell’arcivescovo.

Sembra che la Segnatura Apostolica abbia concluso la sua visita al Tribunale ecclesiastico regionale con osservazioni affatto commendevoli circa la mancata applicazione della lettera apostolica Mitis Iudex Dominus Iesus sulla riforma del processo canonico per le dichiarazioni di nullità del matrimonio. Una nuova grana per i vescovi piemontesi che in settembre dovranno pur decidere qualcosa in merito all’istituzione dei tribunali diocesani. Che la poltrona del presidente don Ettore Signorile, del clero di Saluzzo, stia traballando?

Si stanno levando verso il pontificato di Francesco voci sempre più critiche da dove meno lo si aspetterebbe. Stiamo parlando di quella sinistra ecclesiale che finora manifestava soltanto entusiasmo verso il magistero papale e verso le sue scelte progressiste. Trapela una diffusa delusione, arrivando persino a pensare che il gesuitismo di Bergoglio dia a intendere di voler cambiare tutto – con l’avvio dei famosi «processi» e facendo balenare riforme radicali – per poi lasciare nella Chiesa le cose come stanno. Se ne sono fatti interpreti due eminenti studiosi molto seguiti dal milieu progressista: su Le Monde la sociologa e docente universitaria, Danièle Hervieux Léger e, su Politico Magazine, James Carroll, ex sacerdote, storico e autore di grande fama. Ambedue fautori, ovviamente, dei preti sposati, delle donne prete, della nuova morale sessuale e del governo democratico della Chiesa – gli stessi obiettivi del sinodo tedesco – si dichiarano delusi da Francesco il quale, secondo loro, non rompe decisamente con il passato e preferisce «ripiegare su di una strategia dei piccoli passi». Per la sociologa francese il nodo è la «sacralizzazione» del prete, cioè il sacerdozio ministeriale, da assimilare al pastorato protestante, per lo studioso americano, Francesco sarebbe «prigioniero del clericalismo che denuncia in linea di principio, ma non in pratica». Anche Micromega scende in campo lamentando che la Chiesa rimane «un cartello clericale tutto al maschile, una struttura di potere lontana dal mondo, rigida, autoritaria e che viola i diritti fondamentali». A tale scopo dà voce a Norbert Lüdecke, professore di diritto canonico all’università di Bonn, il quale smonta il cammino sinodale definito «un modo per incanalare l’attuale forte pressione  critica nei confronti della Chiesa attraverso la messa in scena di una pseudo-discussione, in cui dare ai laici la sensazione di sentirsi coinvolti senza di fatto poter decidere nulla» e proclamare l’apertura e la partecipazione «come strategia di marketing clericale che non porta nulla di nuovo in termini di contenuti, anzi consolida ciò che già esiste: la posizione della donna, la morale sessuale, la gestione del potere e del celibato sacerdotale, gli abusi e la corruzione».

Insomma, per certo progressismo, quello più intellettuale e con seguito nelle facoltà teologiche, Francesco non sta facendo quello che la modernità si aspettava da lui. Anche in Italia il malumore serpeggia da tempo ma non esce allo scoperto, sia per timore e sia perché l’8 per mille rappresenta, per coloro che sono in sacris, un formidabile deterrente ad una parresia forte e chiara. Notiamo soltanto come Enzo Bianchi, dopo la caduta in disgrazia, abbia di molto rarefatto i suoi panegirici ultramontani, mentre il più raffinato e oracolare Alberto Melloni commenta sempre più raramente i trionfi – si fa per dire – bergogliani. Secondo qualche fonte, più di un anno fa, ottenuta con fatica dal professore bolognese un’udienza riservata a Santa Marta per perorare la causa dell’ex priore di Bose, si sia udito il Santo Padre alzare la voce, affatto intimidito dal prestigio accademico e mediatico del successore di Giuseppe Alberigo. Comparve così su Repubblica il famoso articolo “Il giugno nero della Chiesa” in cui affermava che, in merito al caso del processo del cardinale Angelo Becciu, forse Francesco non aveva tenuto conto dell’«antropologia sarda». 

E dire che per comprendere l’antropologia di Jorge Mario Bergoglio basterebbe leggere – ce ne sono di ottimi – qualche saggio sulla vicenda del generale Juan Domingo Perón (1895-1974) e sul singolare fenomeno del movimento peronista argentino in cui militò in gioventù il futuro pontefice. Per questo incasellare Bergoglio nell’ideologia marxista è un grande abbaglio dei suoi critici.   

Chissà cosa direbbe l’anima benedetta del Fondatore di Repubblica, il nuovo vangelo letto dai preti e dalle suore progressiste a cui sono abbonati i seminari italiani.  In fondo, il vero papa era lui perché la storia di Francesco e di Eugenio Scalfari è quella di una Chiesa che fa di tutto per essere laica e per scrollarsi di dosso l’immagine di una istituzione vecchia, non al passo con i tempi e oltretutto con la pretesa di essere di origine divina. Senza accorgersi che il laicismo è la nuova religione senza perdono e che per di più non è per nulla laica.

Per concludere, una notizia ecumenica. Il vescovo episcopale del Maine Thomas Brown voleva presentare suo marito, rettore della chiesa episcopale di S. Pietro a Portland, alla Conferenza Anglicana di Lambeth. Purtroppo, il coniuge di Sua Grazia, pur potendo partecipare al culto e alla preghiera, è stato espressamente invitato a non intervenire all’evento che prevedeva un «programma per i coniugi» dedicato allo studio della Bibbia e in cui sperava di «aprire nuovi cammini». Sarà per la prossima volta.

A proposito di cammini, un recentissimo comunicato della Santa Sede sul «Cammino sinodale» tedesco precisa che esso «non obbliga i vescovi ed i fedeli ad assumere nuovi modi di governo e nuove impostazioni di dottrina e di morale» poiché – ma guarda un po’! – «non sarebbe lecito avviare strutture o dottrine prima di una intesa con la Chiesa universale». Diversamente, si determinerebbe «una ferita e una minaccia all’unità della Chiesa». Due semplici osservazioni: troppo poco e troppo tardi. Sì, perché dopo aver promosso e benedetto l’avvio dei famosi processi, adesso è semplicemente impossibile far ritornare i buoi fuggiti dalla stalla, soprattutto conoscendo l’antropologia tedesca, assai diversa da quella sudamericana.  Inoltre, quand’anche si arrivasse ad una intesa tra Roma e la Germania, vorrebbe dire che la Chiesa non è più cattolica – in quanto universale cum Petro e sub Petro – ma è diventata more Synodorum una federazione di chiese nazionali, una specie di Comunione Anglicana i cui approdi saranno inevitabilmente quelli sopra descritti. Ma non sarà in fondo quello che si vuole? La risposta del presidente del cammino sinodale tedesco è stata che la nota vaticana è una scelta «del tutto senza senso». In Germania, intanto, lo scorso anno più di 640.000 persone hanno lasciato le loro rispettive confessioni, tra i cattolici 360.000 hanno voltato le spalle alla Chiesa, tra i protestanti circa 280.000. Dum Romae consulitur

E infine è toccato anche a loro. Dopo Comunione e Liberazione è adesso il turno dell’Opus Dei che teneva un profilo bassissimo per non essere toccata dalla misericordia bergogliana. Con il motu proprio dal perfido titolo Ad charisma tuendum, papa Francesco demolisce lo statuto particolare della Prelatura personale dell’Opera trasferendone la giurisdizione dal dicastero dei vescovi a quello del clero, ma soprattutto stabilisce che il prelato non sarà più, come avveniva finora, un vescovo ma semplicemente un prete insignito del titolo onorifico di Protonotario apostolico soprannumerario. Insomma, il lavoro di San Josemaría Escrivá de Balaguer (1902-1975) che per tutta la vita si prodigò per la soluzione della prelatura personale – figura voluta dal Vaticano II – e che fu ottenuta poi dal successore, il beato Álvaro del Portillo (1914-1994), è andato dissolto. D’ora in poi l’Opus Dei non sarà più una sorta di diocesi senza territorio e, non essendo il prelato attuale – don Fernando Ocáriz - e futuro equiparato ad un vescovo, diventerà de facto un semplice istituto religioso dipendendo dall’esterno per le ordinazioni perché questo sembra essere il vero fine del provvedimento. Addirittura, la lettera si preoccupa   di precisare che il prelato non potrà usare le insegne pontificali. Se non è una deminutio questa…

In effetti, era prevedibile che con un papa gesuita l’Opus Dei avrebbe sofferto. Da sempre, infatti, i figli di Sant’Ignazio furono gli avversari storici della creatura del santo aragonese nata nel 1928. Si dice che padre Pedro Arrupe (1907-1991) dicesse dell’Opera: «Sono come noi eravamo e come non dovremo più essere». Giovanni Paolo II ne fu invece un grande estimatore e nel 1982 la eresse in prelatura personale intervenendo personalmente nella stesura dei canoni che riguardano tali nuovi soggetti giuridici, arrivando a beatificare (1992) e poi a canonizzare (2002) il Fondatore. Con Francesco si comprese che le cose sarebbero cambiate, già ricevendo in prima udienza il vescovo prelato, monsignor Javier Echevarría (1932-2016), gli chiese a bruciapelo quando si sarebbe dimesso imponendogli come vicario l’argentino Mariano Fazio. Da allora, rarissime furono le nomine episcopali di membri del clero dell’Opera – sacerdoti dotati di alta preparazione teologico-canonistica e sempre in possesso di almeno una laurea civile – e il nuovo prelato non fu mai insignito dell’episcopato. Ma c’è di più. Nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate dedicata alla santità nel mondo contemporaneo, non viene mai citato, nemmeno in una nota a piè di pagina, il Fondatore dell’Opera, il cui messaggio centrale e carisma fondazionale, espresso in tutti i suoi scritti, è la riscoperta della chiamata universale alla santità nel mezzo delle occupazioni quotidiane.

L’autore del motu proprio è un altro gesuita, padre Gianfranco Ghirlanda, da sempre contrario a quanto disposto da Giovanni Paolo II in materia e che è diventato colui che dà veste giuridica alle controriforme del suo confratello pontefice. Meglio conosciuto come “il visitors” per la sua attività di commissario dei vari ordini da allineare al nuovo corso, non per nulla sarà creato cardinale nel concistoro del prossimo 27 agosto.

A Torino i centri dell’Opus Dei sono presenti da almeno trent’anni e i loro apostolati, sempre svolti in piena comunione con i vescovi, formano, come in una grande catechesi, laici di tutti ceti e condizioni, in particolare giovani professionisti. Ancora recentemente, il 22 giugno scorso, l’arcivescovo Repole ha celebrato in duomo, come tutti i suoi predecessori, la Messa in onore di San Josemaría Escrivá nel giorno della sua festa. Anche un piccolo drappello di sacerdoti diocesani – non senza suscitare diffidenza e riserve da parte dei guru progressisti – si forma alla robusta spiritualità del Fondatore dell’Opera.

Alla luce di un simile trattamento, si comprende bene come i superiori della Fraternità San Pio X (Lefebvriani) videro giusto quando non accettarono la generosa offerta di papa Francesco di diventare una prelatura personale. Agnosco stilum Curiae romanae.

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