SOLDI & POLITICA

Quanto costa un posto in lista?
Ecco il "listino prezzi" dei partiti

In media occorre scucire subito 30mila euro, in particolare per le candidature con alte chance di successo. Ufficialmente sono contributi per la campagna elettorale. Poi una volta eletti c'è una quota variabile da versare ogni mese

Le alleanze sono decise, le candidature pure. Non resta che votare. Ma farsi eleggere, stavolta, non foss’altro che per la carenza dei posti a disposizione, è più difficile. E costa caro. Ogni partito ha il suo tariffario che cambia a seconda delle chance di elezione. Il Rosatellum prevede il listino bloccato per la quota proporzionale e, pertanto, c'è un’enorme differenza tra avere l’onere e l’onore di guidare la lista e prestare il proprio nome per una mera candidatura di servizio. Nel primo caso, i candidati eleggibile, generalmente dopo il voto, versano al partito un contributo alquanto sostanzioso. Diverso è il discorso per i collegi uninominali, per i quali non si conoscono le cifre.

Quelli nei quali la vittoria del centrodestra è praticamente sicura “costeranno” poco ai candidati di centrosinistra. Il Pd, infatti, fa una distinzione netta tra le due candidature. Un democratico che si dovrà misurare in una sfida secca, come avviene con la quota maggioritaria, versa 1.500 euro una tantum prima del voto. Il piddino candidato come capolista nel collegio proporzionale, invece, scuce 10mila euro subito e 25mila dopo il voto. Se eletti, sia il candidato all’uninominale sia quello inserito nel listino proporzionale, devolvono 1.500 euro al mese per il Pd nazionale e tra i mille e millecinquecento al partito provinciale. Italia Viva è meno esosa e si ferma a un contributo di 20mila euro. Il M5s, invece, non chiede nulla ai suoi candidati se non un contributo per le spese della campagna elettorale territoriale. Dopo il voto, tutti i parlamentari pentastellati dovranno, ancora una volta, rinunciare all’indennità e versare 2.500 euro che andranno in parte al movimento e in parte saranno destinati alle donazioni.

Per Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega la media è 30mila euro, ma tra i tre partiti vi sono differenze sostanziali. Nel partito di Berlusconi la quota viene pagata solo da chi si trova in posizione eleggibile. Una volta entrati nel “Palazzo”, i parlamentari azzurri versano al partito un contributo mensile di 900 euro. Nel Carroccio, per la candidatura, la cifra richiesta è sempre 30mila euro, ma la quota mensile per gli eletti sale a 3mila euro mensili. I meloniani distinguono tra “veterani” e “new entry”. I parlamentari uscenti capilista e certi di essere rieletti, mettono subito sul piatto 30mila euro, mentre gli aspiranti neoparlamentari 5mila euro subito e 25mila dopo il voto. Entrambi, se diventano parlamentari, contribuiscono alla vita del partito con mille euro al mese.

Insomma, fare il parlamentare è un’ambizione che ha i suoi costi, immediati e differiti nel tempo. E non è neppure una novità di queste elezioni, anche se il meccanismo elettorale che concentra in poche mani il potere di decidere, abbastanza arbitrariamente, i concorrenti da far correre e persino il grado di “certezza” del risultato pare abbia fatto ulteriormente levitare i prezzi. E se nella Prima Repubblica la “cagnotta” da versare al partito era in fondo una goccia nel mare dei finanziamenti – leciti e illeciti – oggi per i vertici è diventata una delle forme principali di sostentamento.

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