TRAVAGLI DEMOCRATICI

Pd senza bussola cerca una direzione

Parte oggi la macchina congressuale. Forse. Dal centro alla periferia è prevalente il senso di smarrimento tra quadri dirigenti e militanti. Gli ex renziani premono sull'acceleratore e puntano su Bonaccini. La sinistra come al solito parla molto ma non sa che fare

Tante parole e poche idee. Il profluvio di dichiarazioni sul congresso del Pd fa da contraltare all’assenza di una rotta. Un limbo nel quale galleggiano correnti abituate a infuriare lungo i corridoi del Nazareno e che ora prendono tempo. Insomma, se Enrico Letta ha indicato una road map in quattro fasi, siamo ancora al punto zero. Le attese rispetto alla direzione di oggi rischiano di rimanere deluse se è vero, come temono in molti, che si va verso una dilatazione dei tempi per evitare un congresso al buio.

Perché la verità è che al momento l’unica componente pronta ad accelerare è quella “riformista”: da quelle parti sono già partite le chiamate per l’imminente e forse ultima battaglia. Il candidato è il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Saranno proprio loro stamattina a spingere per la convocazione dell’assemblea, primo passo fondamentale per l’apertura della fase congressuale. Con addosso la lettera scarlatta di ex renziani percepiscono che per loro è in gioco la stessa sopravvivenza. Come si è visto in Piemonte con le scelte sulle liste dove è stata pressoché spazzata via l’area cattodem (non sono stati rieletti Davide Gariglio e Stefano Lepri) e progressivamente emarginati gli ex Margherita. Sarà congresso o scissione, vaticina più di un osservatore: ecco, per i riformisti l’alternativa è sempre meno peregrina.

Tra le altre correnti la confusione regna sovrana, mentre la maggioranza che aveva eletto a suo tempo Nicola Zingaretti fatica a restare insieme, motivo per cui il corpaccione del partito farà di tutto per procrastinare ogni decisione, magari riaggiornando la direzione a due settimane. Perdere tempo per prendere tempo, dando sfogo a quel repertorio di cui la sinistra è impareggiabile interprete: l’analisi del voto e l’autocoscienza collettiva. Si strologherà sulla differenza rispetto gli altri (di superiorità morale meglio non parlare, ma la convinzione resta quella), su anteporre i contenuti ai nomi, dimenticando che se nomina sunt consequentia rerum uno non vale l’altro. Perché mettila come vuoi, ma il Pd un leader ce l’aveva e ha fatto di tutto per ammazzarlo (do you remember il referendum?) poi ha preferito consegnarsi a dei federatori di correnti, sorta di amministratori delegati chiamati a trovare una sintesi tra gli azionisti della Ditta.

“Prima di tutto il Pd deve decidere se sarà un congresso ordinario o una costituente” ragiona l’alessandrino Federico Fornaro, già capogruppo a Montecitorio di Articolo 1, appena rieletto grazie all’ospitalità del partito di Letta. Il segretario ha auspicato una fase costituente in cui il partito si apre verso l’esterno, ma se questo dovesse ridursi a inglobare Demos, qualche bersaniano scampato all’oblio e un pezzo di sindacalismo ormai residuale, più che una rinascita sarebbe l’ennesimo maquillage mal riuscito.

Molto c’è da fare e poco è il tempo a disposizione. A gennaio ci sono le elezioni regionali nel Lazio, poco dopo sarà il turno di Lombardia e Friuli Venezia Giulia: ovunque il rischio di una débâcle è alto e infatti in pochi oggi sentono l’impellenza di reggere il timone di una barca alla deriva. Il parlamentare laziale Roberto Morassut, che era al fianco di Walter Veltroni quando il Pd emetteva i primi vagiti, ha proposto una “prorogatio” di Letta; “ma perché, risulta a qualcuno che si sia dimesso?” ribatte Fornaro. E infatti, al contrario di quanto fece Matteo Renzi quattro anni fa, Letta non ha annunciato le proprie dimissioni, ma solo l’intenzione di non ricandidarsi al prossimo congresso. In attesa di un nuovo leader al timone resta lui.  

Intanto la sinistra brancola nel buio. Elly Schlein è una suggestione che stuzzica quel che resta della gauche arcobaleno ma nessuno dei capataz che dovrebbero intestarsela ha fatto un passo verso di lei. Non Andrea Orlando, non Peppe Provenzano o altri. Come una sirena, il suo canto continua ad ammaliare e allo stesso tempo a spaventare: “Renzi non aspetta altro. Con Schlein segretario mezzo partito se ne va nel terzo polo” ragiona uno dei tanti maggiorenti senza bussola. E pure il ticket con Bonaccini è difficilmente percorribile: due emiliani segretario e vicesegretario, mentre il grosso delle tessere resta al Sud? Come uscirne.? Chi in questi anni ha governato dal centro il partito, sposando la soluzione riformista (Renzi) e poi quella identitaria (Zingaretti), tessendo alleanze ora con la sinistra ora con la destra interne, sempre nell’ottica di garantirne la stabilità (e la propria rendita di posizione) è stato Dario Franceschini. Se anche lui, ora, non sa da che parte girarsi vuol dire che il tempo delle scelte è ancora lontano. Addavenì baffone.

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