SACRO & PROFANO

I cristiani adulti di mons. Repole. Scempio nella cattedrale di Asti

Il vescovo di Torino s'interroga sulla Chiesa del futuro: pochi buoni fedeli formati teologicamente disposti a fare chilometri per andare a Messa. Massi erratici nel duomo astigiano. La dimora episcopale di Casale. Il cambio di registro sull'Ucraina di papa Francesco

L’arcivescovo Roberto Repole ha tenuto alla chiesa della Crocetta una conferenza sul tema “Come sarà la Chiesa del futuro?”. Alla domanda dell’intervistatore sulla futura chiusura delle chiese, la risposta è stata la solita e cioè un lungo excursus storico che parte dai primordi fino al IV secolo della svolta costantiniana per dirci che è finito il regime di cristianità e che non possiamo farci niente ma solo ritornare agli inizi della mitica «comunità delle origini» per cui, come per qualsiasi altro servizio, dovremo fare chilometri per andare in chiesa. Insomma, il messaggio è chiaro ed è come il titolo di un bel romanzo di Walter Siti: Resistere non serve a niente. Si manifesta quella che è da sempre l’idea, molto “boariniana” di una Chiesa non di popolo – sempre sospetta – ma di pochi buoni cristiani adulti formati teologicamente, una Chiesa che, a dispetto di tutti i proclami, suona una sola nota. Un modello già ben sperimentato dalle confessioni riformate che, infatti, stanno scomparendo.

Sulla presenza della Chiesa nel campo caritativo, l’arcivescovo se ne è compiaciuto, ma a condizione che essa non serva a stabilizzare e rendere funzionale un modello che, infine, tende a perpetuare le povertà e a mantenere lo status quo generato dalla ferrea legge del capitale. Se siamo Chiesa, ha detto, è perché siamo di Cristo e così la sua preoccupazione non è per una marginalità della Chiesa in quanto credenti ma è quando si è marginali e non si percepisce più in nessun modo l’identità cristiana, poiché «Gesù Cristo è il cuore della vita, tutto il resto è relativo». Se allora i cristiani propongono valori etici è perché essi sono un bene anche per gli altri. Di papa Francesco, due cose hanno da subito colpito l’arcivescovo Repole. Quando, appena apparso alla loggia di S. Pietro, al posto del ratzingeriano “Sia lodato Gesù Cristo” ha detto semplicemente “buona sera” e l’essersi qualificato come vescovo di Roma e questo rappresenterebbe una «svolta teologica».

Al pari delle cattedrali di Alba, Biella, Cuneo, Vigevano anche quella di Asti sta per essere scempiata dall’«adeguamento liturgico». Presbiterio tutto spostato in avanti, ambone cubico, altare come masso erratico e seggiolone episcopale tipo lego (che peraltro non sfigurerebbero in una chiesa moderna) irromperanno con violenza – quali meteoriti – nel sublime gotico delle navate. La diocesi di Fossano che dovrebbe essere da vent’anni unita a Cuneo è diventata il laboratorio progressista del Piemonte e, secondo il suo vicario generale e liturgista nonché aspirante vescovo, i vecchi splendidi altari barocchi devono essere, in sequenza, prima oscurati e poi musealizzati e resi spogli come il Venerdì Santo. Operazione perfettamente riuscita nel santuario diocesano di Cussanio ed esemplata ad Asti. Non c’è però da inquietarsi troppo. La Chiesa vive nei tempi lunghi e lunghissimi e tali brutture ad essi non resisteranno.  Gli horribilia descritti – sempre dai costi esorbitanti e generosamente foraggiati dall’8 per mille – hanno i decenni contati, non solo perché esteticamente improponibili ma perché assurdamente antiliturgici e poi perché il movimento che oggi sembra marginale avanza lento ma inesorabile. Tantum aurora est.

Dal 2017 è vescovo di Casale Monferrato monsignor Gianni Sacchi, classe 1960, ordinato nel 1990, diploma di scuola magistrale, seminario diocesano di Biella e baccellierato alla facoltà teologica di Torino. La sua nomina fu propiziata dall’influente suo vescovo monsignor Gabriele Mana venendo a succedere come vescovo a un altro biellese, il liturgista modernista Alceste Catella, meglio conosciuto come “il martello dei tradizionalisti”. La diocesi di Casale Monferrato fu la prima nel dopo Concilio a subire un’emorragia di preti che lasciarono il ministero con clamore – adesso tutto avviene quasi in segreto – per convolare a nozze e da allora non si è mai più ripresa. Oggi, vi sono incardinati 52 sacerdoti secolari di cui 48 presenti in diocesi, di essi quattro sono oltre i 90 anni, cinque fra gli 80-90, dieci fra i 70 e gli 80, cinque fra i 60-70, quattordici fra i 50-60, sei fra i 40-50, quattro al di sotto dei 40 anni, nessuno under trenta. Le parrocchie sono 115, rette da un parroco di più parrocchie, solo 37 hanno un sacerdote ivi domiciliato. Ma il fenomeno che distingue la diocesi di Casale è l’immissione di un gruppo di preti provenienti dal Togo tanto che l’anno scorso uno di essi, il canonico Désiré Azogou, è stato nominato vicario generale. Da anni non ci sono ordinazioni ma recentemente, sempre dal Togo, sono arrivati due seminaristi. In buona sostanza, se a Pinerolo la diocesi è stata data in gestione ai neocatecumenali, a Casale Monferrato il futuro sono i buoni presbiteri africani. Monsignor Sacchi si muove come un vescovo-principe rinascimentale ma post Concilio Vaticano II, ama la compagnia della buona borghesia monferrina e la convivialità rotariana ed è un perfetto gourmet, le sue vesti prelatizie sono sempre quelle inappuntabili della sartoria romana di Gammarelli e ha dato il via ad una serie di interminabili lavori in episcopio per renderlo una dimora degna dell’Eccellenza Sua. Recentemente, ha fatto canonici della cattedrale quattro preti, tre dei quali suoi simpatici e – come è giusto – fedelissimi. Sibi et suis.

Enzo Bianchi lamenta l’implosione del cattolicesimo e, nel contempo, ne auspica il dissolvimento totale. Per lui il rinascere della Tradizione non sono che «fallaci tentativi di autoconservazione» ma ciò che colpisce è che di fronte al fallimento da lui riconosciuto delle «speranze conciliari», non azzardi nemmeno il timido tentativo per cercare una risposta alle domande: Perché non è stato così? Perché quelle speranze non si sono realizzate? Tutta colpa dei cattivi “indietristi”, a cominciare da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI? Oppure – non sia mai! – dei «profeti di sventura» stigmatizzati da Giovanni XXIII i quali forse – a ben vedere – qualche ragione l’avevano pure loro? In verità, ciò che manca a tutti i cattivi maestri del progressismo è il solo vero atteggiamento evangelico e cioè l’autocritica. La loro presunzione non ha limiti. Al confronto, i gerontocrati comunisti che l’autocritica – magari obbligati – sapevano praticarla, erano dei coraggiosi.

Con la bella “Lettera del Santo Padre al popolo ucraino”, scritta su richiesta dell’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolico ucraina, Svjatoslav Ševču, dopo la sua visita compiuta in Vaticano e diffusa il 24 novembre, giorno che commemora l’Holodomor, quello che lo stesso Santo Padre ha definito «il terribile genocidio, lo sterminio per fame compiuto nel 1932-33, causato artificiosamente da Stalin», papa Francesco ha dunque mutato registro rispetto al conflitto in corso. In essa egli scrive: «Penso a voi, giovani, che per difendere coraggiosamente la patria avete dovuto metter mano alle armi anziché ai sogni che avevate coltivato per il futuro». È la prima volta che Francesco si esprime con chiarezza a sostegno della lotta armata degli ucraini contro i russi e rappresenta per il papa un mutamento di non poco conto se si pensa che lo stesso alcuni messi addietro addebitava alla Nato e all’Occidente la colpa di aver «abbaiato» ai confini della Russia o che escludeva – contro la tradizionale dottrina cattolica – potesse mai esistere una guerra giusta. A rimanerne spiazzati sono adesso i variegati raggruppamenti del pacifismo cattolico invocanti tutti la cessazione del conflitto, ma condannando allo stesso tempo l’invio di armi all’Ucraina, e che sbandieravano in ogni occasione l’appoggio del papa. Pochi ricordano che Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di S. Egidio, il quale il 5 novembre scorso chiuse la grande manifestazione romana per la pace, si schierò da subito per la resa dell’Ucraina lanciando un appello perché Kiev fosse dichiarata città aperta.

Si avvicina il Natale ed è tempo di letterine, come quella spiritualmente significativa inviata da mons. Giacomo Maria Martinacci, rettore della Consolata ai parroci torinesi nella quale, confermando così quanto lo Spiffero domenica scorsa aveva notato, si dice che «non è difficile notare, anche nel Santuario, la diminuzione del numero dei fedeli». Così si ripropongono, in forma rinnovata con i pellegrinaggi delle parrocchie, i «9 sabati della Consolata», ideati nel 1899 dal beato Giuseppe Allamano (1851-1926), apostolo della Consolata, fondatore dei suoi Missionari e grande rettore del Santuario. Ne siamo lietissimi.

Ringraziamo monsignor Roberto Farinella, vescovo di Biella, per aver voluto rispondere su Facebook, con spirito sinodale, alla nostra nota. Il fatto stesso di averlo fatto è segno che, oltre alle non poche virtù – pure messe in evidenza – egli possiede anche quelle dell’onestà intellettuale e dell’umiltà. Lo Spiffero, che non è un giornale diocesano o un organo di informazione della Chiesa cattolica, riceve spesso segnalazioni – o anche rivelazioni – dal clero e dai fedeli ma non pubblica nulla senza attente verifiche o confronti.  Purtroppo, la cronaca ecclesiale di questi ultimi tempi ci dice che molti casi venuti alla luce – non tutti ovviamente – non avevano alla base solo illazioni o maldicenze. Nell’epoca del villaggio universale la Chiesa deve fare i conti con l’opinione pubblica, non solo quella esterna, ma anche al suo interno dove non sono più ammesse aree sacrali riservate. Non è un esercizio facile come, cara Eccellenza, non lo è il ministero del vescovo a cui certi incoscienti, senza rendersene conto aspirano, pensando poi di esercitarlo come negli Anni Cinquanta. Lei certamente non era fra questi e gliene va dato atto.

Così alla lettera del giovane Lorenzo Iorfino si può solo replicare che già prima della sua elevazione all’episcopato erano ben note le qualità di don Farinella come premuroso e attento pastore delle anime del gregge a lui affidato e le sua ne è una bella testimonianza. E tuttavia, il munus regendi è un’altra cosa e va esercitato con determinazione e, a volte con durezza. Siamo fra quelli che ritengono Joseph Ratzinger un grande teologo e un grande uomo di Chiesa come prefetto della fede, ma non siamo altrettanto certi egli sia stato un grande arcivescovo di Monaco. Il suo pontificato si è schiantato sugli scogli di una durissima e implacabile opposizione interna perché gli difettava il governo, da uomo di studio preferiva la battaglia intellettuale e la predicazione mentre aveva da fronteggiare quei lupi che egli stesso aveva evocato. L’errata scelta dei collaboratori gli fu infine fatale. A papa Francesco si possono avanzare molte critiche – noi siamo fra questi – ma non quella di non usare il pugno di ferro scontentando anche i suoi sostenitori e senza curarsi delle critiche. Se dovessimo fare una analisi delle nomine episcopali di Benedetto XVI, scopriremmo che la maggioranza dei prescelti – anche in Piemonte – erano progressisti della più bell’acqua.  Con papa Francesco o si è allineati o nulla e i risultati purtroppo si vedono. Oggi abbiamo spesso come vescovi dei buonissimi e piissimi preti che, diventatati vescovi, non si rivelano all’altezza della situazione. Come diceva il Guicciardini, Magistratus virum ostendit.

Al gentile Attilio Saino vogliamo dire che, trattando della Chiesa, i termini ideologici di destra/sinistra risultano spesso fuorvianti. Il loro uso è recente e risale al Concilio, non però a quello dei Padri – quello vero – ma a quello dei media che è diventato poi egemone nella pubblicistica e nei seminari. Un tempo non era così, non perché nella Chiesa non vi fossero diverse correnti o sensibilità – anche molto diverse e in conflitto fra di loro – ma perché non se ne faceva un uso politico e quindi di valore e perciò moralistico. Qualche esempio, ma se potrebbero fare molti. Il cardinale Francis Joseph Spellman (1889-1967), arcivescovo di New York, fu campione dell’anticomunismo e famoso per essersi schierato con il presidente Kennedy per l’intervento in Vietnam, ma al Concilio si schierò fermamente per la libertà religiosa approvando, con i tutti vescovi statunitensi, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae contro la  quale invece si oppose e combatté una dura battaglia l’arcivescovo Marcel Lefebvre e il Coetus Internationalis Patrum che raccoglieva i vescovi più conservatori. All’opposto, il cardinale Léon-Joseph Suenens (1904-1996), uno dei moderatori del Concilio e il protagonista assoluto della maggioranza progressista, fino a rendersi inviso a Paolo VI, sostenne e protesse da subito il Rinnovamento nello Spirito Santo, l’associazione internazionale appartenente al movimento ecclesiale della corrente spirituale del Rinnovamento carismatico, movimento considerato regressivo e conservatore. Circa i termini profani di rivoluzione/reazione – concetti che rinviano all’aut-aut riformato – proprio non siamo d’accordo. Come ha detto recentemente papa Francesco, il sentire cattolico vive dell’et-et. Purtroppo, la penetrazione di categorie di giudizio politiche dentro la Chiesa – non ultima delle sue piaghe – ha polarizzato e impoverito ogni confronto.

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