SACRO & PROFANO

Nuova stretta sulla Messa antica. Parte la "rivoluzione di giugno"

Mentre nella diocesi di Torino si preparano i futuri assetti ridisegnando parrocchie e responsabilità, il Vaticano assesta un altro duro colpo al Vetus Ordo. L'addio clamoroso di don Piras e quello silenzioso di molti "boariniani"

Qualche anticipo degli assetti territoriali che scaturiranno dalla “rivoluzione” che a giugno investirà la diocesi di Torino, si è avuto con le nomine di un unico amministratore per le parrocchie di Robassomero, Cafasse, Vallo e per le parrocchie di Passerano Marmorito e Aramengo. Don Silvio Cora, classe 1965, ordinato nel 1991, vicedirettore dell’archivio arcivescovile e collaboratore della parrocchia di S. Anna è stato nominato – donec aliter provideatur – amministratore parrocchiale della cattedrale metropolitana.

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Sorprendendo molti, mentre la diocesi va in cerca di germogli, ecco che ne spunta uno con la clamorosa “uscita di scena” di don Danilo Piras, classe 1988, ordinato nel 2013, parroco di S. Lorenzo Martire a Venaria dal 2018, che ha rinunciato alla parrocchia e ha comunicato la sua decisione dichiarando di volersi dedicare a una vita di povertà e preghiera, non senza aver prima enumerato i propri difetti. Non si tratta di un abbandono del ministero, ma della denuncia del funzionalismo ecclesiastico così come oggi è vissuto e persino richiesto, la riduzione dei preti ai quei «funzionari di Dio» che il teologo progressista Eugen Drewermann aveva scolpito nell’omonimo saggio. Il tono del discorso di don Danilo – dove più che il curato di campagna di Georges Bernanos, ci ha ricordato un po’ qualche dialogo di “Don Camillo e i giovani d’oggi” di guareschiana memoria – rivela forse un eccessivo senso di inadeguatezza che meriterebbe di essere approfondito. Ci è giunta voce che don Danilo – non avendo le spalle forti come quelle dei padri del Verbo Incarnato – non abbia retto l’urto di un “clan” di cattolici “adulti e post-conciliari” (o post cattolici) ideologizzati e sapientemente eterodiretti e abbia preferito lasciare la parrocchia piuttosto che “adeguarsi”. Non sta a noi entrare nel merito di scelte tanto personali, comunque dettate da un profondo senso del soprannaturale. I progressisti più stolti – uxorati e non – potranno gioire perché uno degli “errori del sistema” usciti dal seminario prima della “normalizzazione”, si è tolto di mezzo dimostrando così la sua “fragilità” e ignoreranno sicuramente i moltissimi messaggi di stima e vicinanza che hanno invaso la rete dimostrando come don Danilo avesse saputo guadagnarsi – in un contesto sicuramente difficile – la stima e l’affetto di tanti parrocchiani. In verità, hanno poco da esultare perché tutti sanno bene quanti di loro – tutti ascrivibili all’area “boarinina” – abbiano lasciato non solo la parrocchia, ma il sacerdozio e tutto in silenzio e senza nessun annuncio pubblico come l’ingenuo, ma onesto parroco di Venaria, ha fatto. Negli ultimi anni ne abbiamo contati almeno dieci e – sorvolando sulle motivazioni – siamo sicuramente in difetto. Il gruppo dirigente curiale, che un tempo avrebbe ironizzato soddisfatto perché il caso di Venaria dimostrerebbe che i preti con la talare sono rigidi e non sanno essere pastori e stare con il popolo, è invece giustamente preoccupato assai perché adesso dovrà provvedere a tappare un nuovo buco.

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La “rivoluzione di giugno” si annuncia tutta in salita. Varrebbe la pena, in una diocesi che va in cerca di germogli, interrogarsi sulla riduzione secolare del ministero e la sua conseguente pericolosa banalizzazione. A furia di rincorrere il mondo per adeguarsi ad esso mendicando approvazione e riconoscimenti, si finisce per diventare del tutto irrilevanti. A consolazione di don Danilo ci sentiamo di citare come sempre Benedetto XVI: «Un cristianesimo che veda il suo proprio compito solo nel mostrarsi, in ogni campo, pienamente all’altezza dei tempi, non ha più nulla da dire, né ha più alcun senso. Non è l’ideologia dell’adattamento quello che in verità “salva” il cristianesimo ma solo il coraggio di far sentire la sua peculiare e caratteristica voce proprio in questo “momento” della storia facendo valere il suo inconfondibile messaggio» (Theologische Prinzipienlehre, p.59).

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Il provvedimento che molti paventavano, alcuni temevano e speravano non venisse emesso ed altri, invece,  attendevano con ansia è dunque arrivato. Il papa, ricevendo il cardinale Arthur Roche prefetto del Culto divino – detto “il killer” – colui che fin dal 2012 ha sabotato in tutti i modi la Messa antica per arrivare alla porpora, ha firmato un Rescriptum in cui assesta un altro duro colpo alla Messa limitandone ancora la celebrazione sottoponendola a un rigido controllo vaticano al fine di creare a Roma delle liste di proscrizione. A lui si è accodato il segretario del dicastero, il francescano biellese monsignor Vittorio Viola, vescovo emerito di Tortona conosciuto come la “vergine perdolente”, sotto la regia di tutta l’operazione il liturgista Andrea Grillo che, come ci dicono, per suoi motivi famigliari, è anche un grande fans di Amoris Laetitia. Il Rescriptum si presta ad alcune considerazioni: 1) i progressisti di ogni specie quando nel 2007 uscì Summorum Pontificum gridarono alla scandalo perché veniva tolto ai vescovi il potere di concedere la Messa che veniva liberalizzata; 2) nel 2021 Traditionis Custodes fu salutata favorevolmente dagli stessi perché ritornava in capo ai vescovi il medesimo potere; 3) oggi che con il Rescriptum questo potere viene nuovamente tolto ai vescovi – liberi di negare ma non di concedere – e rimesso alla Santa Sede, nessuno obbietta. Il provvedimento, come giustamente qualcuno ha scritto «svela il bluff della sinodalità». Tutto in un quadro di confusione, per cui il papa elogia il rito zairese, «un’opera d’arte, un capolavoro liturgico e poetico» e i riti orientali perché, come disse a Cipro «Non ci sono e non ci siano muri nella Chiesa cattolica, per favore! È la convivenza delle diversità: quel rito, quell’altro rito…». Solo di fronte alla Messa in latino si rialzano i muri. Durante la Messa del Mercoledì delle Ceneri, Francesco ha detto che «nella Chiesa tutto va conformato alle esigenze dell’annuncio del Vangelo; non alle opinioni dei conservatori o dei progressisti, ma al fatto che Gesù raggiunga la vita della gente. Perciò ogni scelta, ogni uso, ogni struttura, ogni tradizione sono da valutare nella misura in cui favoriscono l’annuncio di Cristo». Ma allora, come qualcuno ha fatto, viene da domandare: Santità, se ogni scelta deve essere valutata nella misura in cui favorisce l’annuncio di Cristo, volete farci credere che la Santa Messa tradizionale, la Santa Messa da voi tanto osteggiata che ha formato stuoli di cristiani e di santi per almeno sedici secoli, sfavorisce l’annuncio di Cristo? E le centinaia di migliaia di fedeli che ogni settimana in tutto il mondo partecipano alla Santa Messa tradizionale non ricevono l’annuncio di Cristo? E le migliaia e migliaia di giovani, che in questi anni quindici anni, sono ritornati a partecipare ad una Santa Messa attratti dalla liturgia tradizionale non sono raggiunti nella loro vita da Gesù? E le migliaia di sacerdoti che, anche quotidianamente, celebrano la Santa Messa tradizionale non si conformano alle esigenze dell’annuncio del Vangelo?

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Da nostre fonti apprendiamo che presto arriverà una Costituzione apostolica la quale, con il pretesto di esaltare il Novus Ordo, proibirà infine del tutto la Messa antica, quella di Don Bosco, di Padre Pio e dei grandi santi. Ma perché – anche molti laici onesti cominciano a chiederselo – tanto accanimento? Dal molto ristretto e provinciale angolo visuale italiano in fondo si parla di una minoranza, ma in Europa e nel mondo le cose stanno assai diversamente. In alcuni paesi la Messa antica è dilagata e sta dilagando, soprattutto fra i giovani, e questo preoccupa molto. L’esultanza dei teologi e liturgisti progressisti è massima anche se alcuni, per la verità meno miopi e che non hanno smarrito la ragione e il buon senso, si domandano il motivo di tanto accanimento unidirezionale proprio mentre le eresie dilagano nella Chiesa e la fede si sta spegnendo come la fiammella di una candela da troppo tempo riposta sotto il moggio. A fronte di un autoritarismo, fomentatore della guerra liturgica, che senso ha ancora parlare di sinodalità quando è ormai evidente a tutti che a guidare il processo – si fa per dire – è una cultura individualistica e narcisistica del tutto estranea al sensus fidei del popolo di Dio? L’elitarismo di alcuni teologi infatti è francamente ridicolo. Forse credono che il loro statuto e il loro status siano ancora quello del tempi – tanto per fare un nome – di un don Franco Ardusso il quale, la si pensi come si vuole, era un maestro. Spesso invece la sensazione è di trovarsi di fronte a dei poveri presuntuosi che – abituati ormai a parlare ai banchi e alla ristretta cerchia del loro giro – vivono in un universo secolarizzato del tutto autoreferenziale. Insomma, se la cantano e se la suonano. Altro che Contemplata aliis tradere. Su tutto, l’impressione è che nella Chiesa gli abusatori seriali alla Rupnik vengano perdonati, mentre la temutissima Messa in rito antico viene vietata, dove il problema non è il degrado morale, ma la Tradizione. Commentando il Rescriptum, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, ha detto che «esso degrada i vescovi a semplici firmatari di petizioni alla massima autorità danneggiando la responsabilità dell’episcopato». Come ha notato Silere non possum, i vescovi hanno ormai il terrore di parlare, perché la paura fa novanta e i successori attuali degli Apostoli non possiedono più – diciamo noi – «il coraggio e la sincerità di dire tutto», la biblica parresia.

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A proposito di Marko Ivan Rupnik, la nota della Compagnia di Gesù sul caso svela quale sia la strategia perseguita e cioè comminare qualche sanzione al confratello in modo che tutto resti all’interno dell’Ordine, evitando così accuratamente di rispondere alla domanda cruciale, sempre la solita: cosa è avvenuto con la scomunica inflitta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e che solo il papa poteva togliere?

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È passata sotto silenzio una notizia che riguarda la Comunione anglicana, il modello verso cui anche la Chiesa cattolica sembra incamminata volendo diventare “sinodale”. I presuli titolari di ben 25 province ecclesiastiche sparse fra Africa, Asia e America Latina che rappresentano il 75% dei fedeli anglicani extraeuropei, hanno formalizzato la rottura definitiva con Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e primate anglicano, in polemica sui temi della morale sessuale o ai dibattiti sul «genere Dio». Un tempo, non molto lontano, questi ministri anglicani avrebbero cercato rifugio nella Chiesa cattolica che li avrebbe accolti con generosità. Recentemente lo sono molto meno in quanto, seppur sposati, sospettati – e questo non sia mai! – di essere portatori di istanze conservatrici in materia di fede e di morale. Quindi oggi nessuno bussa più alla porta della Chiesa cattolica perché il rischio è di trovarsi dove si era prima.

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Dopo tante note dolenti, poiché un credente non deve mai perdere l’ottimismo soprannaturale in quanto la Chiesa infine la guida il Signore, segnaliamo che in Germania il soffio dello Spirito Santo non ha abbandonato il campo e che quattro donne di peso, le teologhe Katharina Westerhorstmann e Marianne Schlosser, insieme alla filosofa Hanna Barbara Gerl-Falkovitz e alla giornalista Dorothea Schmidt hanno lasciato il Sinodo in quanto, come dichiarato al quotidiano Welt, esso «mette in dubbio le dottrine e le credenze cattoliche fondamentali».

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Anche se siamo ormai in Quaresima – non può mancare una bella immagine carnevalesca riferita – absit iniuria verbis – a due preti conosciuti e stimati per non avere mai indossano la talare. Si tratta del parroco e del viceparroco di Vinovo che hanno sostituito l’antiquata berretta alla don Danilo con l’elmo cornuto. Al centro, l’unico con l’abito giusto – il laticlavio senatoriale del magistrato romano – è il sindaco. Semel in anno…

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