2 GIUGNO

Verso la Terza Repubblica, "senza timori né fantasmi"

Trent'anni esatti dopo la drammatica svolta impressa da Tangentopoli e un lungo periodo di sospensione, il ritorno della politica apre con Meloni alle riforme costituzionali. Sembra sfumare il presidenzialismo per il premierato. Intervista al costituzionalista Cavino

“Si è conclusa una lunga fase di incertezza incominciata nel 2011 e con questa legislatura c’è stato il ritorno alla politica, che potrebbe essere la precondizione per una riforma costituzionale. Sì, possiamo dire che è l’inizio della Terza Repubblica”. La seconda nacque sulle ceneri della Prima, tra l’acre odore di Tangentopoli e un primato dell’azione giudiziaria, con le sue luci e le sue non poche ombre, su una politica logorata e incapace di reagire all’onda populista su cui il Paese vedeva nelle toghe le sue vele, senza badare a scoglie secche. Oggi, esattamente trent’anni dopo, proprio alla politica il costituzionalista Massimo Cavino, ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università del Piemonte Orientale, riconosce il riconquistato ruolo e la potenziale capacità di avviare riforme tentate e non riuscite negli ultimi quarant’anni.

Riforme, appunto. Incominciamo dalle ultime mosse di Giorgia Meloni, professore: dal presidenzialismo al premierato. Una virata inattesa o inevitabile?  
“Più che una virata mi pare un argomento di concretezza e realtà. Una riforma presidenzialista potrebbe nuovamente incagliarsi in un referendum, mentre probabilmente sulla versione premierato ci potrebbe essere la convergenza di altre forze ad di la della maggioranza consentirebbero di non passare dalla comnsultazione popolare. E il referendum è sempre rischioso nelle riforme istituzionali nel nostro Paese”.

Quindi un compromesso?
“Sì, direi che è un compromesso politico per arrivare al risultato della maggiore governabilità e alla legittimazione più forte del vertice dell’esecutivo. Una soluzione che può piacere a forze al di fuori della maggioranza”.

C’è chi opponendosi all’elezione diretta del Capo dello Stato evoca timori per la democrazia, per l’uomo o in questo caso la donna forte.
“Ci può essere una preoccupazione di questo tipo, ma fino a un certo punto. Tra l’elezione diretta di un presidente del consiglio che sarebbe nominato da un Capo dello Stato a quel punto senza margini di manovra, tutto sommato anche quella del premier potrebbe essere definita come figura di uomo o donna forte. Credo più che altro che le difficoltà verso il presidenzialismo siano di architettura costituzionale. Anche quando c’è stata la maggiore convergenza sul semipresidenzialismo con la Bicamerale D’Alema, era comunque un semipresidenzialismo molto mitigato rispetto alla versione francese. La verità è che la nostra Costituzione è costruita attorno al Parlamento, il primo organo costituzionale che noi incontriamo quando andiamo a leggere la seconda parte della Carta, ma se guardiamo la Costituzione francese, il primo organo che si incontra è il presidente della Repubblica”.

Questo non può alimentare chi osteggia la riforma, fornendogli un argomento pesante come quello del ruolo del Parlamento? 
“Il fatto che nella Costituzione il Parlamento abbia la sua centralità, rende molto difficile allentarsi dalla forma di governo parlamentare, ma l’elezione diretta del presidente del consiglio resterebbe in quelle che si definiscono forme neoparlamentari, permettendo però di trovare un più efficace equilibrio con le altre dinamiche istutuzionali”.

Altra obiezione trasformata in allarme: con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica verrebbe meno il suo ruolo di garanzia. È così?
“In realtà no. Per garantire questa funzione bisogna esplicitarlo chiaramente nella Costituzione. In quella francese all’articolo 5 si parla di potere di arbitrage, esattamente quel potere di indirizzo politico costituzionale che è quel che si chiede a un presidente in un quadro che non sia di presidenzialismo puro. In Francia dove c’è un forte senso di identità nazionale si riconosce al presidente non solo l’espressione di una parte politica, ma anche il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale. Ruolo che in Italia andrebbe enfatizzato in caso di elezione diretta per evitare il pericolo che il Capo dello Stato venga avvertito come figura di parte. Comunque ho l’impressione che la scelta presidenziale sia ormai tramontata”.

Mariotto Segni, considerato il padre del maggioritario, ha posto un forte accento proprio sul sistema elettorale. Come deve cambiare con la riforma che questa maggioranza intende attuare?
“Se si va verso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio è essenziale è che ci sia un collegamento diretto tra elezione delle camere e del premier, penso a un’unica scheda con le liste collegate al presidente del consiglio. In caso contrario, come dimostra il caso di Israele, si prospetta il rischio di una corsa al voto disgiunto costringendo poi il presidente del consiglio a cercarsi la fiducia. Altro elemento cruciale è il premio di maggioranza alle liste legate al candidato premier.” 

Ancora liste bloccate?
“Non è detto, credo ci sia ampio margine di discrezionalità del legislatore, non c’è una strada costituzionalmente obbligata. Ci sono pro e contro per una soluzione e per l’altra. Sono dinamiche che possono anche variare nel tempo, anche se poi una volta andato a regime credo non ci saranno tanti cambi della legge elettorale come quando ci sono delle fibrillazioni”.

Questa sarà la volta buona, la riforma arriverà in porto?
“La partita che si sta giocando ha buone possibilità di riuscita perché la riforma viene presentata come contenuta, a differenza del tentativo di Matteo Renzi della grande riforma che toccava la struttura del Parlamento, la dinamica regionale, in questo caso si presenta come “solo” della forma di governo. Probabilmente il restringere a un unico tema rende più facile la comprensione”.

Resta il fronte contrario. Ancora una volta sulle riforme, le regole del gioco, si anima lo scontro. Inevitabile?
“Forse, a chi la mette sugli opposti schieramenti, giova ricordare che nel 2007 proprio a Torino il professor Alfonso Di Giovine, figura che non può certo essere definita come vicina all’attuale maggioranza, pubblicò una raccolta di saggi su la presidenzializzazione dell’esecutivo nelle democrazie contemporanee dalla quale emergeva come in tutte le forme di governo anche quelle parlamentari si stava andando verso un’enfatizzazione del vertice dell’esecutivo, perché le interazioni politiche ed economiche premiano sistemi di governo che abbiano maggiore capacità di decisione”.

Un passaggio che segnerà, come lei osserva, anche l’inizio della Terza Repubblica?
“Nel 1993 ci fu una forte rottura e l’impianto culturale costituzionale è cambiato, andando avanti con logiche ispirate a una democrazia maggioritaria fino al 2011 e poi da lì ad oggi è proseguita una fase di oscillazione. Questa legislatura segna l’inizio della Terza Repubblica perché si è conclusa una lunga fase di incertezza e c’è stato il ritorno alla politica. Un quadro favorevole per una riforma costituzionale”.

Professore, il 2 giugno, quest’anno…
“È la festa della Repubblica e tutto ciò di cui stiamo parlando è possibile perché la nostra Costituzione lo consente. Lo dico perché è facile prevedere nel giro di qualche settimana che ci sarà chi parlerà di golpe, qualcun altro da qualche salotto avvertirà del bisogno di difendere la Repubblica. Non credo affatto che questi cambiamenti siano il pericolo, semmai un’evoluzione che il nostro Paese vive perché vuole essere una parte democratica e attiva nel mondo”.   

print_icon