SACRO & PROFANO

Il "ritiro" della Chiesa di Repole: laici supplenti del clero vacante

Nella predicazione ai preti bolognesi la summa della visione ecclesiologica dell'arcivescovo di Torino: "Una comunità di comunità con un centro eucaristico". L'udienza del "devoto" Lo Russo. Tanti malumori all'Assemblea della Cei

Ha avuto una certa eco nazionale il ritiro predicato dall’arcivescovo di Torino Roberto Repole lo scorso 9 maggio ai preti di Bologna dall’enfatico titolo “Così ripensiamo il presbiterio”. I contenuti del quale – mutatis mutandis – sono stati ripetuti, nella settimana appena trascorsa, all’Assemblea generale della Cei, alla presenza del papa e tra gli applausi di molti prelati. Del resto, in orbe caecorum monoculus rex. Il ritiro – mai un verbo sostantivo è stato utilizzato in modo più efficace! – ha avuto fondamentalmente due parti: un’analisi della situazione e una proposta di intervento/azione. Sul primo punto è stata per l’ennesima volta riproposta, in modo accattivante ed emotivamente coinvolgente, l’arcinota solfa di tutto il catto-progressismo secondo la quale abbiamo ormai definitivamente superato l’età della cristianità che, bontà loro, ha avuto dei meriti, ma che è stata solo infine «un modo di essere Chiesa». Adesso dobbiamo (sic!) «trovarne un altro».

Tuttavia, la parte più interessante dell’intervento, ovvero del “ritiro” inteso come cura palliativa, è la seconda, nella quale l’arcivescovo-ecclesiologo immagina la Chiesa del futuro senza più clero sostituito da una serie di «comunità di comunità» che abbiano, come unica nota distintiva, la Parola di Dio (sempre prima di tutto) e l’Eucaristia domenicale in un unico «centro eucaristico». Praticamente un ritorno ai primi secoli di cui però infine non si conosce molto. Queste «comunità di comunità», immaginate da monsignor Repole, vedranno il moltiplicarsi delle «ministerialità laicali», accanto a quella diaconale definita «ministerialità dell’umano», come se preti e laici potessero mai essere dispensati dall’umano. Il tutto condito con la glassa dell’adagio: «L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia».

Ora è inutile girarci intorno ma le cose andrebbero chiamate con il loro nome. La rivoluzione pastorale post-Conciliare è stata un fallimento sotto ogni punto di vista: non ha generato famiglie cristiane, né cultura cristiana; non c’è stata alcuna primavera dello Spirito, anzi, siamo nell’inverno freddo della fede e, conseguentemente, delle vocazioni. Dal punto di vista del laicato questa sua «valorizzazione tardiva» pare veramente una presa in giro, da supplenti del clero mancante; essa è, a parole, fondata sul Battesimo, ma realmente determinata solo dal calo numerico dei sacerdoti. Inoltre, è sempre necessario ricordare che la seconda parte del dittico – «la Chiesa fa l’Eucaristia» – indica irrinunciabilmente la “Chiesa gerarchica” e, segnatamente, il ministero sacerdotale senza il quale semplicemente non ci sarebbero né Eucaristia e né Chiesa.

Tutti ricordano gli strali che il professor Roberto Repole lanciava dalla sua cattedra contro la lettera Communionis notio di Joseph Ratzinger che invitava a riservare il termine «Chiesa» unicamente alle confessioni cattolica e ortodossa, rilevando che gli anglicani e la galassia riformata sono al massimo «comunità ecclesiali» o «comunità cristiane». Dopo l’intervento dell’arcivescovo Repole, applaudito da chi – fieramente ignorante – non sa cosa applaude, qualcuno ha osservato che la prospettiva da lui delineata non corrisponderebbe più alla Chiesa cattolica, ma una triste ensemble di «comunità di comunità».

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Stiamo assistendo in questi giorni alle performance devote del sindaco di Torino Stefano Lo Russo che, insieme all’arcivescovo Repole è stato ricevuto dal Santo Padre e il giorno dopo ha partecipato con compunzione alla tradizionale processione di Santa Rita presieduta quest’anno, oltreché dal parroco monsignor Mauro Rivella, dal vescovo monsignor Nunzio Galantino, ambedue già, rispettivamente, segretario e presidente dell’Apsa, e quindi vittime illustri di papa Francesco. Il primo rispedito a Torino senza prospettive episcopali e il secondo congedato senza porpora. Il fervore religioso che anima il sindaco non gli aveva però impedito di sfilare in fascia tricolore al Gay Pride di Torino dell’anno scorso dove dietro di lui era inalberata una figura di donna nuda crocifissa, immagine che qualche povero «indietrista» ha ritenuto blasfema. Insomma, Lo Russo si qualifica sempre di più come sindaco di lotta e di governo, un po' Askatasuna e un po’ Santa Rita. Che rimane pur sempre la «santa degli impossibili».

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Di questi giorni è la notizia che ha gettato nello sconforto tutta la galassia progressista. In una ennesima intervista il papa ha chiuso seccamente all’ipotesi del diaconato femminile con gli ordini sacri in quanto «fare spazio alle donne nella Chiesa non significa dare loro un ministero». Di tale cocente delusione si è fatto interprete con la franchezza che lo contraddistingue – e di cui gli va dato atto – don Duilio Albarello, “il teologo del Cuneese” e docente al rinomato Issr di Fossano: «Altro che Chiesa in uscita! Qui non si fa altro che ribadire gli schemi più triti e ritriti, tipici di uno sconcertante maschilismo ecclesiastico. Non resta altro che bandire ogni illusione: il Cattolicesimo rimane irreformabile, e continuerà così fino a che sarà imprigionato nella visione miope di una gerontocrazia sclerotizzata». Fossimo in lui però non deporremmo le speranze. Papa Francesco è uno stratega e ci ha da tempo abituati ai suoi stop and go, qualcuno dice che troverà infine la formula ovvero, come per Fiducia Supplicans, si consumerà il consueto pasticcio.

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Si è chiusa l’Assemblea generale della Cei con l’incontro a porte chiuse fra i vescovi e il papa che ha ammannito loro la solita tiritera sul clericalismo e la mondanità. L’informato Silere non possum ha sintetizzato l’impressione di qualche vescovo e che riflette l’opinione di altri, ovviamente espressa in privato: «Ciò che viene contestato al papa da diversi presuli è la mancanza di chiarezza. In un mondo che è sempre più incapace di offrire risposte, anche la Chiesa e lo stesso Pontefice rischiano di essere una voce flebile e incapace di offrire lo sguardo sulla via che conduce a Gesù Cristo. Mentre Francesco condanna le ideologie allo stesso tempo sembra guidare la Chiesa proprio guardandola con gli occhiali dell’ideologia e della divisione. Ci sono i buoni (quelli che la pensano come lui) e i cattivi (quelli che mettono in risalto i problemi). Ci sono i conservatori e i progressisti. Gesù Cristo, la preghiera, la teologia, i dogmi, il diritto, sono tutte cose che non trovano spazio in questo pontificato».

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