SACRO & PROFANO

Repole tra Cei, Sinodo e S. Marta. Porpora al prossimo conclave?

Le azioni dell'arcivescovo di Torino sono in ascesa e nella Curia romana pronosticano l'imminente berretta rossa cardinalizia. Tanto idioma politichese nei documenti della Settimana Sociale dei cattolici. Il papa sdogana turpiloquio e volgarità. Francesco carente sull'Ai

L’arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole, è sempre più spesso a Roma, impegnato per la preparazione del sinodo di ottobre, lo si può così vedere aggirarsi frequentemente in compagnia di qualche prete per le viuzze intorno all’Almo collegio Capranica dove risiede. Non vi è dubbio che le sue azioni, sia alla Cei sia alla corte di Santa Marta, siano in ascesa e se il suo contributo all’assise sinodale diventasse decisivo non è escluso venga inserito al prossimo conclave nel novero dei cardinali.

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Tradizionalmente, nella diocesi di Torino, in occasione della festa del patrono San Giovanni Battista veniva dato l’annuncio di nomine e trasferimento di parroci che avrebbero poi preso possesso da settembre. Quest’anno, salvo sorprese che riguardino Savigliano, sembra non vi saranno novità. Con la nuova gestione tutto viene orchestrato con grande riserbo dal più ristretto circolo “boariniano” ma coinvolgendo sempre di più la figura, finora piuttosto decorativa, del Moderatore.

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Chi abbia avuto l’animo di leggere il documento preparatorio alla 50esima Settimana Sociale dei cattolici italiani che si terrà a Trieste dal 3 al 7 luglio prossimi sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”, farà una immersione in quel «linguaggio del nulla» che ha ormai pervaso la Chiesa, del tutto incompressibile, se non agli iniziati. Ecco alcuni esempi di tale idioma, nemmeno poi dei più oscuri: «rigenerare gli spazi di vita», «rinforzare la capacità di scegliere democraticamente», «condividere il presente e immaginare il futuro», «disponibilità a vivere in prima persona una trasformazione», «sperimentare metodologie innovative e sconvolgenti», «abitare il cambiamento», «discernimento sapienziale», «un nuovo inizio», «trasformare il presente e immaginare insieme il futuro». In tutto questo fiammeggiare di nuovo vi è una sola grande assente: la Dottrina sociale della Chiesa. Troppo esigente, troppo chiara nelle sue premesse e nelle sue conclusioni, meglio evitare quel corpus dottrinale che, come scriveva San Giovanni Paolo II annuncia Cristo nelle realtà temporali e optare per qualche tema meno compromettente, adatto per quello che non vuole essere un evento ma un processo. E allora «mettiamoci in cammino» e partecipiamo alla vita democratica disquisendo sui più svariati temi ma senza mai citare papa Wojtyla, il quale diceva che la democrazia regge o cade in base alla concezione di persona che vi sta alla base e facendo poi un lungo elenco di condizioni senza le quali essa non ha senso. Così anche la partecipazione democratica ha dei criteri che non possono emergere o spuntare fuori da un processo ma devono essere già posseduti, sono dei prerequisiti e questi si trovano proprio nella Dottrina sociale della Chiesa, espressione questa che nel documento non si trova mai.

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Con le loro dichiarazioni, ma forse senza nemmeno rendersene conto perché tale è il livello culturale o anche solo di conoscenza degli ultimi nominati, i vescovi, già prima delle elezioni, sono andati all’attacco del governo Meloni con argomenti che riproducono quasi esattamente quelli del Pd. Il vicepresidente della Cei, monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano All’Jonio aveva infatti rilasciato una lunga intervista a Repubblica in cui affermava che la questione che più preoccupa i vescovi oggi non è, per fare un esempio, la perdita della fede e la conseguente desertificazione di chiese e seminari ma, entrando pure nei dettagli tecnici, la riforma del premierato e delle autonomie in discussione al Parlamento. Inevitabile il rinvio alla risposta del famoso film di Roberto Benigni Johnny Stecchino sul traffico come il più grave problema di Palermo. Sua Eccellenza ha poi ripetuto lo slogan per cui l’Europa deve ritrovare non lo spirito dei tre cattolici Padri fondatori (De Gasperi, Adenauer e Schuman) o le sue radici cristiane, ma «essere coerente con lo spirito di Ventotene», uno spirito che nulla ha a che fare con lo Spirito Santo. Nel Manifesto di Ventotene del 1941 – tanto citato quanto poco letto – di ispirazione giacobino-azionista, si teorizza che, non sapendo il popolo cosa volere e cosa fare, il potere deve essere affidato ad una minoranza illuminata. Inoltre, non solo la Chiesa cattolica viene definita come il centro della reazione europea ma si auspica che «il Concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile». Sarà a conoscenza, monsignor Cassano, che il cospicuo importo dell’8 per mille che sostiene la Chiesa cattolica in Italia deriva direttamente da quei Patti del Laterano la cui abrogazione il Manifesto di Ventotene pone tra le urgenze del nuovo assetto europeo?

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Nell’intervento che papa Francesco ha pronunciato al summit del G7 sull’Intelligenza Artificiale (AI) e sulla sua ambivalenza, il discorso, pur ricco di richiami e tecnicismi è sembrato a molti osservatori che mancasse qualcosa. In esso compaiono molti riferimenti a temi etici e politici generici – le «buone pratiche» – ma non si arriva mai ai fondamentali, quelli che un politico può anche ignorare ma un papa proprio no, per cui la conclusione è semplicemente quella di cercare di lavorare insieme su alcuni principi che rimangono però come vaghi e sospesi in aria e che non si capisce su cosa dovrebbero basarsi. Il punto è sempre il solito. Senza riferimenti al diritto naturale e alla legge morale naturale rimangono pochi spazi per affrontare un tema, quello dell’IA, che rischia di condurci verso un mondo artificiale controllato in ultima istanza da convergenze di opinioni o ancor peggio da interessi. Su cosa si fondano, in riferimento alla politica che dovrebbe governare il cambiamento, gli aggettivi «sana» e «buona»? Non si trattava certo, durante il consesso di Borgo Egnazia, di fare del proselitismo, ma colpisce che nell’intervento papale non vi compaia mai un richiamo a Dio e a Gesù senza cui la politica non regge. Ben diversa la prospettiva di Benedetto XVI che nell’ultimo capitolo della Caritas in veritate parlando della legge morale naturale come la norma che Dio ha iscritto nel cuore dell’uomo diceva: «Dio svela l’uomo all’uomo: la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo alla verità morale». Solo in riferimento a tale verità la politica si può definire buona.

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Dalla corte di Santa Marta

Il Santo Padre ha incontrato martedì 11 giugno i preti ordinati da1995 al 2003 e per chi ama veramente la Chiesa e veneri il papa, sia esso prete o semplice Christi fidelis, è difficile sfuggire ai sentimenti di pena e di disagio che suscitano le sempre più sguaiate esternazioni. Completamente esautorata e in piena confusione la pur consistente e ben retribuita pattuglia della comunicazione vaticana, Francesco va ormai a ruota libera in ogni occasione, incurante delle ripercussioni che sue parole in libertà provocano e che vanno oltre il testo scritto, ma che sono rivelatrici di ciò che veramente pensa. Così anche nella Sposa di Cristo la volgarità e il turpiloquio hanno ormai ricevuto piena cittadinanza e questo è un ben triste segno dei tempi. Un prete, infatti, ha esordito in questo modo: «Spero di non sparare cazzate, visto che queste parole sono state sdoganate». Dialogare con lui poi è praticamente impossibile e chi, rispondendo ai suoi inviti, tenta di parlare franco ponendo interrogativi o problemi, riceve una non risposta o un aneddoto che non c’entra nulla, di solito una maldicenza sui monsignori di curia. E la prova che Santa Marta sia diventata, con il continuo andirivieni di vecchie megere che vanno dal papa a sparlare di tutto e di tutti, il vero centro del chiacchiericcio, è quando se l’è presa con la chirurgia plastica la quale – ammissibile, bontà sua, per le donne – sia assolutamente sconveniente per gli uomini, rivelando di essere a conoscenza di coloro che si rifanno il sedere.

Ma quello che ha colpito di più l’uditorio è stato quando un parroco ex missionario ha espresso al papa un suo desiderio accolto da un appaluso scrosciante: «Mi piacerebbe lei parlasse di più della bellezza di essere preti. Noi siamo preti innamorati del Signore. Penso bisogna dire un grande grazie ai preti di Roma che danno la vita per il Signore. Lo dica a tutti che i preti di Roma sono bravi, muoiono di infarto, di esaurimento nervoso. Anche ai giovani diciamo che è bello essere preti. Quanto è bello appartenere al Signore! Ogni tanto sentire la sua parola positiva farebbe bene perché anche in questa sala c’è tanta fede, tanta fatica e tanto amore per il Signore». La risposta, che è suonata come una vera presa in giro, è stata laconica: «Grazie per difendere i clero». Per finire, il papa si è detto preoccupato delle ideologie di destra (quelle di sinistra non lo preoccupano) e circa l’omosessualità ha affermato: «Se un ragazzo vuole entrare in seminario e ha una tendenza omosessuale fermatelo. Perché la cultura omosessuale è andata avanti tanto e ci sono ragazzi buoni che vogliono il Signore ma è meglio di no, meglio di no». A tali parole, non sono in pochi coloro che a Torino si sono chiesti cosa sarebbe accaduto se tali disposizioni fossero state applicate ai tempi di don Sergio Boarino.

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