Le feconde radici del Tea Party

Il prossimo 16 dicembre ricorre l'anniversario della celebre rivolta dei coloni a Boston. Una pagina di storia più che mai attuale, e non solo per gli Stati Uniti

Il 16 dicembre 1773 i coloni americani versarono le casse di tè di tre mercantili nelle acque del porto di Boston, episodio considerato la scintilla della guerra di indipendenza americana. Con quell’atto giunse al culmine la protesta dei coloni che si opponevano alla crescente centralizzazione dell’amministrazione inglese e all’aumento delle tasse. All’origine del diffuso malcontento verso la corona inglese ci fu la Guerra dei sette anni (1756-1763) considerata il primo conflitto di portata mondiale perché le potenze europee estesero le loro operazioni di guerra anche nelle loro colonie sparse per il globo. Gli inglesi avevano contratto dei debiti e al termine del conflitto avevano la necessità di ripagarli. Quale metodo più semplice per farlo che quello di mettere una nuova tassa? Sembra di ravvedere i politici attuali. Nel 1765 venne istituita la tassa sul bollo ovvero su l’utilizzo della carta, dai contratti ai giornali, su ogni foglio di carta gravava la tassa. Ad aggravare la faccenda l’introito finiva a Londra, mentre fino ad allora i coloni americani avevano pagato solo tributi alle amministrazioni locali. Dopo una serie di proteste lo Stamp Act venne revocato. Rimanevano i debiti da pagare e il sovrano inglese nel 1766 passò alla tassazione indiretta su carta, piombo, vernici, vetro e tè.

 

L’anno successivo ci fu un attacco alle autonomie locali con la creazione di un apposito ufficio addetto alla riscossione alle dirette dipendenza di Londra e con il passaggio del controllo di funzionari, magistrati e governatori dalle assemblee locali a quello del governo londinese. Un vero e proprio tentativo di esautorare le autonomie locali.

 

Nel marzo 1770 una ribellione fiscale scoppiata a Boston finì con la morte di cinque coloni. I responsabili vennero puniti, ma si intuisce che il clima era incandescente. Per protestare contro le nuove tasse, John Hancock aveva trovato il modo di aggirare il problema comprando tè dall’Olanda evitando di passare attraverso la Compagnia delle Indie che avrebbe dovuto pagare le tasse al governo inglese. Nel 10 maggio 1773 venne emanato il Tea Act che garantiva il privilegio alla Compagnia delle Indie di smerciare il tè sul suolo americano senza bisogno di intermediari locali. In questo modo il governo inglese si garantiva un’entrata sicura perchè la compagnia poteva vendere ad un prezzo dimezzato rispetto si suoi concorrenti che si rifornivano in Olanda. Incominciarono le prime proteste con il respingimento delle navi cariche di tè o con il rifiuto di trasportarlo una volta a terra. A Boston nacque un’associazione di protesta, i Figli della Libertà, guidata dall’intellettuale, Samuel Adams. In uno dei loro incontri si contarono ben 8000 persone a testimonianza del malessere diffuso. Non si trattava di una banale bega commerciale che opponeva commercianti delle colonie con quelli della madrepatria. Era qualcosa di più: era una questione di principio. Da una parte gli americani che rivendicavano il diritto di decidere della loro vita tramite la scelta dei loro rappresentanti che avrebbero dovuto dar conto di come impiegavano il denaro raccolto con le tasse, dall’altra re Giorgio III che cercava di centralizzare l’amministrazione delle colonie, scegliendo uomini che avrebbero dovuto rispondere a Londra e non ai cittadini americani, trasformati in mucche da mungere per rimpinguare le casse dell’impero.

 

Nel dicembre dello stesso anno alcuni uomini travestiti da pellirossa per non farsi riconoscere salirono a bordo di tre navi inglesi e svuotarono l’intero carico di tè in mare: ben 45 tonnellate. Per risposta il governo inglese decretò l’embargo della città di Boston. La sproporzione della reazione esasperò ulteriormente gli animi. Nel 1775 scoppiava la guerra di indipendenza americana.

 

L’attuale movimento Tea Party, che tanto sta avendo successo negli Usa determinando la vittoria dei repubblicani nelle elezioni di mid-term di un anno fa, si ispira a quelle proteste. Il salvataggio delle banche operato da Bush e poi da Obama con la contropartita che ogni aumento di spesa corrisponde prima o poi ad un aumento delle tasse è stata la scintilla della nuova protesta. Poi il programma socialista di Obama con la statalizzazione della sanità che costerà 1000 miliardi al contribuente americano che si andranno a sommare ai 700 spesi da Bush per il primo pacchetto di aiuto alle banche e al secondo di 1000 miliardi stanziato da Obama. Ormai il governo di Washington si avvia a diventare lo stato-mamma a cui siamo abituati noi italiani. Per un popolo che ha nella sua tradizione una guerra per affermare la propria libertà ciò è aberrante. Si consideri che per quanto si è voluto far passare questa crisi come una crisi del mercato la realtà è ben diversa. L’origine sta nella politica dei bassi interessi praticati dalla Fed fra 2002 e 2006 per sostenere i prezzi di case e azioni e dalle politiche pubbliche che imponevano la concessioni di mutui facili per l’acquisto delle casa. Non bisogna dimenticare che al centro della crisi ci sono state due banche parastatali Fannie Mae e Freddie Mae che acquistavano in gran quantità titoli emessi da altre banche che offrivano in garanzia i famigerati mutui subprime, trasformandosi in una sorta di ripulitrici del rischio altrui. I tea parties hanno accusato i governi di Washington che agendo in questo modo avrebbero prolungato la crisi: non si aiuta l’economia salvando chi ha creato i disastri. Sono passati quattro anni dall’inizio della crisi e ancora non se ne vede la fine. Hanno avuto ragione gli esponenti del Tea Party?

 

Mi si permetta di concludere con la citazione del titolo di un saggio di Bastiat, “Ciò che si vede, ciò che non si vede”. Gli aiuti si vedono e salvano dei posti di lavoro. Le conseguenze che non si vedono è che quei soldi qualcuno li dovrà tirar fuori, perchè a meno di miracoli non crescono su gli alberi. E se il contribuente dovrà pagare per salvare le banche, non avrà soldi per comprare, per esempio, un gioco in più al figlio, con perdita di posti di lavoro nell’industria del giocattolo ed è ciò che non si vede.

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